Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

I bambini del dopoguerra

di Renata Stoisa

Ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia felice, nei primi anni del dopoguerra. All’epoca i cortili di Torino, e borgo Rossini non faceva eccezione, erano piccole isole di verde. Grandi o piccoli che fossero erano ingentiliti da qualche alberello, una siepe di ortensie, una bordura di giuseppine e i vasi di aromatiche della portinaia.

Ho rivisto poco tempo fa il cortile della casa della mia infanzia. Lo ricordavo grande e pieno di fiori, ora è rimpicciolito dai box delle auto e là dove c’erano le ortensie ci sono i bidoni della differenziata. Di bambini nemmeno l’ombra.
Ricordo che da corso Palermo – abitavo nel tratto prima di corso Novara – impiegavo circa venti minuti per raggiungere la media Giacosa. Nessun genitore accompagnatore, si andava e tornava a piedi da soli. Sotto casa, ad aspettarmi, c’erano due compagne di classe, una proveniva da piazza Bottesini e l’altra da via Varese. Cammin facendo il gruppetto diventava più numeroso. Dai portoni uscivano altre tre o quattro amiche. Tra loro c’era la figlia di un militare che viveva nell’edificio del demanio all’angolo tra corso Palermo e via Modena. L’edificio, in stato di abbandono, c’è ancora.

La preside della Giacosa, Maria Civran Maggi (già ricordata da Margherita Oggero), la ricordo magra con piccoli occhiali dalla montatura dorata, non so dire dei baffi, allora ero già miope e i particolari non li vedevo.
Grazie a insegnanti severi, le bocciature a fine anno erano numerose, la classe ogni anno rinnovava i suoi componenti rendendo elettrizzante il rientro dalle vacanze. Fu grazie all’impietosa selezione che all’inizio della terza nella mia sezione, fino ad allora composta da sole femmine, comparvero quattro maschi. Si seppe che erano gli ultimi rimasti di una sezione ripetutamente decimata. I quattro malcapitati erano mansueti e studiosissimi. Ciò ci permise di sottoporli a scherzi talvolta feroci e a ottenere da loro aiuti, più o meno spontanei, durante i compiti in classe.
Ricordo la libertà per noi ragazzi di vivere le strade di Borgo Rossini e dintorni in totale autonomia.

Era normale darsi appuntamento davanti al monumento del Carabiniere muniti di pattini a rotelle. Si correva finché il formicolio alle piante dei piedi diventava insopportabile.
Era normale andare casa della zia in lungo Dora Firenze, includendo una deviazione golosa da Raspino. Dal balcone si vedevano le case del lungo Dora Siena, sulla sponda opposta. Sembravano lontanissime e quella distanza inconsueta rendeva il panorama bellissimo e unico.
Era normale attraversare il ponte per raggiungere una compagna di classe che abitava in largo Montebello.
Era normale andare a piedi a Maria Ausiliatrice o alla Consolata per la messa domenicale.
Era normale andare a fare la spesa a Porta Palazzo passando da via Priocca. Mi sembravano, tutti quei percorsi a piedi brevi, piacevoli. Erano occasioni per osservare scene di vita quotidiana. Nel cortile di una casa si poteva vedere il materassaio che con un ago lunghissimo infilzava la fodera, pochi passi e poi, davanti a un portone, c’era il mulita, l’arrotino intento ad affilare forbici e coltelli. Gli artigiani lavoravano un po’ in bottega, un po’ in strada. Un sarto, che mi sembrava vecchissimo, teneva la macchina da cucire accanto alla porta aperta. Man mano che ci si avvicinava a Porta Palazzo le case di ringhiera diventavano più frequenti e la fantasia si accendeva.
Mia madre mi strattonava se mi fermavo ad accarezzare un gatto randagio o se toccavo le grosse palle di pietra poste ai lati dei portoni. Non provavo disgusto per gli odori sgradevoli, la sporcizia, anzi provavo invidia per i bambini di quelle case, ancora più liberi di me.

Finite le medie l’orizzonte incominciò ad allargarsi. Il borgo non bastava più. C’erano le vetrine di via Roma, le passeggiate su lungo Po, la scoperta della collina, ma, come si dice in questi casi, questa è un’altra storia…