Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

Borgo Rossini

di Margherita Oggero

In anni lontani, gli anni della giovinezza, ho abitato in borgo Rossini, precisamente nel secondo isolato di corso Regio Parco.
Allora il borgo era periferia vera, e forse per via dell’imprinting a me le periferie piacciono tutte o quasi. Ero cioè una ragazza di barriera: prima avevo vissuto con i nonni in via Sesia (Barriera di Milano), più avanti con mamma e papà in corso Palermo (Borgo Aurora), ora abito quasi in centro, diciamo dall’altra parte di un corso che lo delimita, comunque con i piedi sempre ben piantati fuori dalle zone auliche. Magari non è solo una questione di imprinting, chissà.

Il ricordo che ho di quegli anni assomiglia a una vecchia foto in bianco e nero, con i bordi frastagliati, l’inquadratura un po’ sghemba e un intruso o intrusa che passa in secondo piano. Però il primo piano è nitido.
Nel viale centrale di corso Regio Parco passava il tram n° 12 che portava al cimitero di corso Novara, e un biglietto tramviario del 12 è una delle chiavi risolutive di quel capolavoro di ironica leggerezza sfornato dalla ditta F&L (Fruttero e Lucentini) dal titolo La donna della domenica.

In corso Regio Parco erano ubicati negozi vari e ne ricordo con precisione tre:
– 1° quello di una pettinatrice scrausetta ma con una blaga neanche fosse stata Beps.
– 2° la rivendita di giornali e articoli di cartoleria dei fratelli Abrate, da cui mi fermavo ogni giorno non solo a comprare quotidiani e settimanali, ma anche a scambiare quattro chiacchiere sulle condizioni del tempo e sugli affari miei e loro.
– 3° la pasticceria Raspino, tuttora presente, che era il mio luogo del cuore. La proprietaria, Margherita come me, officiava al banco e il marito sfornava delizie autentiche, degne di quelle esposte nelle più celebri vetrine del centro (leggi, non a caso, Ghigo). Bignole, chantilly e torta frangipane: mai più trovate di così buone quasi sotto casa.

In Borgo Rossini mi hanno rubato la mia prima macchina, una 500 color cappuccino o cacchetta. Parcheggiata davanti a casa la sera, il mattino dopo non c’era più. Mai stata ritrovata, e dire che di auto migliori ce n’erano parecchie negli immediati paraggi: la mia era di terza mano e con le fiancate molto vissute, a bolli e graffi. Deve aver trovato un amatore eccentrico, o con la vista compromessa.

Digressione.
La seconda auto – che non c’entra tanto con Borgo Rossini – me l’hanno rubata in via Montebello in pieno giorno, sempre una 500 ma quasi nuova, cioè di soli sei mesi di vita, comprata da un dipendente Fiat. Era poi stata ritrovata, ma il ritrovamento mi aveva creato grandi seccature, perché non aveva più i sedili originari – anche qui un ladro anomalo – ma solo uno (quello di guida) di diversa foggia e colore, cioè corpo di reato da consegnare in deposito alla Giustizia con paginate di verbali acclusi.
La terza l’ho venduta, perché avevo scoperto che vivendo in città potevo farne benissimo a meno, dal momento che mio marito era automunito e disponibile ad accompagnarmi in caso di bisogno, peccato però che abbia sempre guidato come un rapinatore in fuga, e per lungo tempo senza cinture di sicurezza perché le auto non le montavano ancora.
Fine della digressione.

In Borgo Rossini, e precisamente in via Parma, alla scuola Giuseppe Giacosa, retta da una preside leggendaria, Maria Civran Maggi, in anni precedenti avevo frequentato le medie, con insegnanti bravissime, tutte donne, e tutte con i baffi più o meno accentuati.
La Tommasini (lettere), sotto l’aspetto bonario di una madre di famiglia di mezz’età celava un’insospettabile passione per la strategia militare: durante lo studio del De bello gallico, disegnava alla lavagna lo schieramento degli eserciti nelle varie battaglie, o il vallo fatto costruire da Cesare di fronte ad Alesia prima della sciagurata sortita di Vercingetorige.
Alla Nicoletti (mate) sarebbe bastata un’occhiata per tacitare gli ultras di una curva dello stadio, figurarsi una classetta di femmine col grembiule nero.
La Perotti (francese) sembrava più mite, ma se si accampavano giustificazioni (per gli esercizi non fatti, per il quaderno dimenticato, ecc.), sfuriava come uno tsunami.
Le ammiravo molto e molto mi piacevano, queste prof preparate, esigenti e fiere del loro lavoro, senza svenevolezze maternalistiche, senza esibizioni da martiri del troppo lavoro. Del resto, lo dice anche il proverbio: “donne baffute, sempre piaciute”, e la ceretta non era ancora di moda.

Adesso in Borgo Rossini, non più in corso Regio Parco, ma in via Catania, ci passa il 19 erede del 12 e porta al cimitero, ma anche al Ponte sulla Dora.