Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

La storia di un prete di Barriera

di Valter Gerbi

 

Capitava quasi sempre. Ancora adesso mi chiedo, perché? Io e don Gianfranco ci recavamo nelle scuole medie per presentare il nostro lavoro e chiedere la possibilità di iscrivere i nostri ragazzi agli esami di privatisti per la licenza media. Puntualmente venivamo accolti con cortesia e gentilezza, ma la cosa strana era che, vedendoci arrivare, il Preside di turno allungava la mano verso di me, salutandomi con un sonoro “Benvenuto, don Gianfranco!”: ma il prete non ero io.

Ecco, comincia così il ricordo di quegli anni, in compagnia di un sacerdote davvero unico. Don Gianfranco Laiolo era giunto nel 1979 nella Parrocchia San Domenico Savio, di via Paisiello 37 a Torino, preceduto da una fama particolare, quella di un prete di strada, abituato a stare con gli ultimi, poco avvezzo alle cerimonie e alle parole, più portato al fare e costruire. Dimenticavo, appassionato ciclista. In un ambiente come quello dedicato al beato Michele Rua, altro nome dello stesso istituto riservato ad intitolare la scuola, la cosa poteva destare qualche preoccupazione, anche tra i confratelli. Una scuola media “fiore all’occhiello” della Barriera di Milano e un oratorio vivace, ricco di iniziative, vedersi capitare tra capo e collo un prete che andava alla ricerca degli sbandati della zona, dei tossici, degli “ultimi” creava indubbiamente perplessità, problemi e dubbi: certo la mission di Don Bosco andava in quella direzione ma, si sa, tra il dire e il fare… Il don girovagava incessantemente per le vie del quartiere, avvicinava gli sbandati, offriva la sua sincera amicizia, condivideva ciò che possedeva: non era raro incontrarlo su una panchina vicino a chi si era appena iniettata la dose o all’ospedale San Giovanni Bosco, al fianco di qualche ragazzo sofferente (non dimentichiamoci che stiamo parlando degli anni ’80 quando l’Aids mieteva tante vittime e non esistevano ancora cure adeguate). Poco alla volta è diventato una figura amica, un punto di riferimento, un fastidio per qualcuno ma, per tanti, una persona speciale e insostituibile.

E così decisi di farmi avanti: allora insegnante elementare, poi agente di polizia locale e una laurea in magistero. Mi presentai, lo conobbi e chiesi quale potesse essere il mio contributo. Ricordo perfettamente il suo sorriso e i suoi occhi luminosi, mentre mi buttava lì una interessante proposta: “Perché non diventi il preside di una classe dei miei ragazzi che vogliono prendere la terza media?”. E così andò a finire: anni e anni di scuola prima al Michele Rua, poi in un negozio di prossimità in via Brandizzo, affittato a spese della Circoscrizione, quindi presso la chiesetta di legno di via Perosi, aldilà della trincea della ferrovia per lo scalo Vanchiglia, diventata punto di riferimento per tutte le attività di don Gianfranco. Tanti gli amici, i conoscenti coinvolti come insegnanti e tantissimi i ragazzi, alcuni già uomini a tutti gli effetti, che prendevano la decisione di frequentare nelle ore serali la nostra scuola speciale. Una scuola diversa dalle altre dove si rispettavano in parte i programmi, ma si mirava soprattutto alla formazione umana e alla crescita. Come scrivere un curriculum, vivere la realtà leggendo un giornale, conoscere i meccanismi della democrazia, fare sport per riempire il tempo di vita e movimento (quante volte ci siamo allenati al Pala Vela di via Ventimiglia), vedere un film o un servizio televisivo e discuterlo. Frequenti erano gli incidenti di percorso, se così li vogliamo chiamare: studenti strafatti, non di studio, visite della polizia per la ricerca di qualcuno in particolare, vetrate rotte. Una vera e propria corsa ad ostacoli dove tutti facevano il possibile per dare una mano; per un certo periodo anche due turni, uno preserale e l’altro serale: la voce si era sparsa. Non tutti ce la facevano, ma molti approdavano all’esame finale e lo superavano (grazie anche alla comprensione di presidi e professori, alcuni di questi poi diventati nostri amici, che ci ospitavano come privatisti presso i loro istituti).

La presenza di don Gianfranco e di Giovanna (nella foto qui sotto), altra persona che si è dedicata interamente agli “ultimi”, è stata continua e così la scuola è andata avanti per anni, dal 1981 al 1986, così come sono andati avanti i tornei di calcio tra i ragazzi più sfortunati di Barriera di Milano e Regio Parco: momenti di svago e di amicizia, liberi dalla “roba” almeno per qualche ora, momenti che servivano per aprire una breccia nella volontà di chi pensava di non avere più nulla da perdere.

Il salto da “punto di riferimento nella zona” con tante mamme e papà angosciati che cercavano aiuto per i loro figli disperati alla nascita di una comunità vera e propria, “La cordata”, è stato breve perché il don, con l’immancabile Giovanna, riusciva ad aprire tre case accoglienza a Ferrere d’Asti, Chieri e Alice Superiore che io ho frequentato settimanalmente per continuare la mia opera di formatore.

Un bilancio di questa esperienza? Ovviamente non tutti ce l’hanno fatta e ciò è stata una delusione e un cruccio, ma sono state tante anche le piccole e grandi vittorie in questo microcosmo che è la nostra Barriera di Milano, i ragazzi che sono riusciti a uscire dal tunnel, a trovare un lavoro, farsi una famiglia, godere del più bel dono che abbiamo mai ricevuto, la nostra vita.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini