Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

L’isolato

di Stefano Gabbiani

Un isolato. Meno di duecento metri tra casa nostra e l’argine del fiume Dora. Un isolato soltanto. Lo percorriamo quasi ogni giorno. Quasi, perché l’ansia sale quando si mette fuori il naso da casa e saltare qualche giornata allevia, almeno in parte e almeno per me, questa sensazione. Ma tu ne hai bisogno. Non sai parlare ancora eppure sai farti capire benissimo.

E così, a passi carichi di inquietudine, ci apprestiamo a varcare il portone trasparente del palazzo, non prima di aver ricevuto il via libera da un radar di nome mamma che affacciata all’uscio valuta l’affollamento in strada. Non c’è nessuno, si parte. Una camminata talmente breve da far sorridere in tempi normali sembra diventata lunghissima, ogni porzione di strada somiglia a un terreno minato, pronto a esploderci sotto i piedi. Questo quartiere fantasma è il quartiere che ti ha visto nascere. È Borgo Rossini, il tuo borgo e quello di tanti altri bimbi che come te aspettano che la piazzetta blu si riempia di nuovo per giocare e le persone tornino a incontrarsi mentre a parlare sono rimasti solo i balconi.

Circumnavighiamo il primo incrocio, quello tra via Pisa e via Messina, con la perizia di un marinaio attento a evitare incroci pericolosi. Magellano sarebbe fiero di noi. Costeggiamo un lungo edificio pieno di scritte incrostate di colore e vetri rotti per terra. Erbacce che spuntano da dietro grate arrugginite. Alcune finestre dalle serrande verdi abbassate, come a riparo delle sofferenze custodite lì dentro. Un ex ospedale in disuso. Ci fanno, o per meglio dire facevano, delle esposizioni di tanto in tanto. Sembra passata una vita.

Ti tengo stretto tra le mie braccia e già si intravede l’argine, lo guardiamo come un naufrago guarda la riva dal mare in tempesta. Si è parlato di droni leggeri come libellule che arano il cielo, elicotteri telecomandati da cacciatori di fantasmi che si muovono minacciosi per la città e sulle sponde dei fiumi in particolare.
Qualcuno passa correndo, qualcun altro porta a passeggio il cane, i pochissimi taxi superstiti appaiono malinconici davanti al vecchio ospedale abbandonato.
Attraversiamo furtivi la strada e in un batter di ciglia scivoliamo giù per la breve discesa d’erba verso il nostro angolo appartato di fiume. È un tratto che non abbiamo mai frequentato prima d’ora, ma oltre ad essere il punto più vicino a casa è anche quello che ci permette di stare quasi a filo con l’acqua e avere una visuale privilegiata sul fiume stesso. Qua e là i residui di un altro tempo, scatolette arrugginite e bicchieri in plastica, cannucce e bottigliette di vetro.

Mi guardo attorno: non c’è anima viva, solo un uomo e una donna stazionano sotto il Ponte delle Benne a diversi metri di distanza da noi. Tengono il capo chinato e le braccia magre armeggiano nervose dentro a zaini o sacchi, non saprei dire, sono in penombra. Una penombra poco rassicurante. Non li fissiamo troppo e loro non badano a noi. Guardiamo l’acqua che scorre, cerco di capire se è più pulita di come la ricordassi ma non mi pare lo sia. Ti chiedo se vuoi scendere o rimanere in braccio. Scegli di restare aggrappato a me.
Dove sono finite le anatre? Oggi non si fanno vedere. Pazienza, ci accontentiamo di qualche piccione che trotterella sull’erba e di un corvo che trova riparo tra i rami del grande albero sopra di noi. Intanto passa il pullman sul ponte, la linea 19, e tu ti illumini come scorgessi la più incredibile delle meraviglie. Lo fai sempre quando vediamo il 19 procedere sopra le nostre teste.

Un giorno mi accorgo di una ragazza seduta al fondo della discesa verde. La guardo come si guarderebbe un ostacolo, un nemico persino, che ha osato invadere i nostri spazi. E mi chiedo come possa mai questa emergenza renderci persone migliori. Vedere gli altri come una minaccia da tenere a distanza, un pericolo incombente con la faccia di chiunque.
Dev’essere una vendetta della natura che da madre che tutto perdona si è ricordata del poeta e si è trasformata in matrigna, una matrigna che non chiude più gli occhi di fronte allo sfacelo, che non tollera più i nostri soprusi quotidiani e che anzi si vendica prendendosi gioco di noi e ricompensando altre forme di vita.

Si legge di delfini che nuotano placidamente nei porti delle grandi città, di cervi comodamente accampati davanti a un complesso residenziale di Londra o affacciati all’ingresso di un negozio. Noi, inconsapevolmente forse, cerchiamo una traccia quando veniamo quaggiù, un segnale di risveglio da parte della natura.
Rimaniamo per qualche minuto sotto le frasche degli alberi in fiore: la primavera è arrivata senza che ce ne accorgessimo e senza che lei si accorgesse di noi.
Quanto piccoli e fragili siamo. Molto più piccoli e fragili di te che a dispetto dei tuoi 19 mesi sei molto più consapevole di noi. Noi che ci affanniamo inutilmente e di continuo mentre a te è sufficiente intravedere un’anatra nuotare coi suoi cuccioli o un gabbiano solcare il cielo per essere felice.

Torniamo indietro, il nostro intervallo d’aria è finito per oggi. Giochiamo al gioco delle macchine. Mentre camminiamo ti indico una ad una le auto lungo il marciapiede deserto e ti chiedo se tra queste trovi la macchina di papà. Tu ti diverti e scuoti la testa sorridendo: no, sembri dire muovendo con forza il ditino, non c’è la macchina di papà.
In questo periodo mi torna spesso alla mente quel libro triste e meraviglioso e più precisamente quel dialogo tra padre e figlio persi in lande disperate. Il bambino chiedeva al padre se fossero loro a portare il fuoco e il padre rispondeva che sì, erano loro a portare il fuoco e dunque, in un modo o nell’altro, ce l’avrebbero fatta.
Io mi rendo conto che sei tu a portare il fuoco, amore mio, e sei tu a chiedermi di aiutarti a non farlo spegnere. Spero di essere all’altezza.
Penso a questo e ad altro ancora mentre percorriamo a ritroso l’isolato. Un isolato soltanto.