Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

La fermata

di Silvia Pinardi

Gli alti platani dal fusto macchiato costeggiano le mura del cimitero monumentale, senza dubbio il più antico della città.
Lungo corso Novara, appena attraversato l’ampio viale trafficato, piccoli chioschi espongono bidoni in plastica ricolmi di fiori dai lunghi gambi. Tra le imprese funebri e le lapidi luccicanti esposte all’esterno di piccoli caseggiati in mattoni, le automobili degli studenti del nuovo polo universitario sabaudo si incastrano a spina di pesce confuse e accalcate.

Osservo scivolare l’asfalto sotto le ampie ruote dell’autobus extra-urbano, un tempo chiamato Satti, il cui capolinea è a poche fermate dal ponte.
Potrei percorrere ad occhi chiusi quella tratta, la cui distanza ha assunto per me un peso differente con il trascorrere del tempo: da liceale studiosa e stanca ad universitaria libera e sognatrice sino a lavoratrice indipendente e determinata. Quei venti chilometri hanno comunque costantemente rappresentato per me una bolla di attesa e di stupore continuo; sempre intenta ad osservare il formicolare di vita ad ogni semaforo di quella linea blu e gialla etichettata oggi a grandi caratteri led arancioni “GTT – Torino via Fiocchetto – Chivasso Via Po”.

Il conducente svolta a destra, lungo Dora Firenze. La luce del mattino filtra tra le grandi foglie color verde smeraldo mentre l’autobus si immerge nel Borgo Rossini, così industriale e brulicante di mestieri, luogo ricco di ricordi e tradizioni.
Sono aumentate le passerelle in legno lungo la Dora, i nuovi locali della movida studentesca hanno affiancato gli storici produttori di materassi ed i meccanici, accanto alla sede del fine cioccolato di Gobino e al celebre spaccio tessile sono emerse pasticcerie siciliane uniche, negozi di biciclette specializzati in brunch domenicali, poco distanti da imponenti caseggiati di lavoratori per l’energia.
Sono cambiate le insegne delle botteghe, sono mutati i colori delle tende dei bar all’angolo di storici edifici, sono mutate le vetture ed i parchimetri, sono state spostate le paline delle fermate dei mezzi urbani a seconda dei lavori stradali da effettuare, dei sampietrini da sollevare e dei tombini da ispezionare.

Devo scendere a breve, proprio poco prima del capolinea. Non mi affanno più, dopo tanti anni, a prenotare la discesa. Lascio la soddisfazione di pigiare il bottone rosso agli alunni delle prime classi degli istituti tecnici. Il tintinnio moderno e ovattato sostituisce il gracchiare meccanico dei cicalini degli autobus di fine millennio; quegli autobus di cui ricordo ancora l’odore acre dei sedili in pelle rossa, vero e proprio deposito di cicche masticate e delle prime sigarette fumate clandestinamente. Gli adolescenti si alzano svogliati dai pistoni della porta posteriore, dove hanno trovato a sedere per ripassare in vista dell’interrogazione, ed attendono pensierosi di scendere.
Lascio loro il tempo di muoversi in branco, proprio come avevo fatto io prima di loro, sono giunta a destinazione. Scendo i gradini ed osservo lo zoppicante gitano elemosinare all’entrata dell’ospedale Maria Adelaide nell’indifferenza generale.
Costeggio il fiume e risalgo via Rossini, baciata da un sole primaverile ed avvolta da un cielo terso e luminoso. Il rumore impetuoso della Dora Riparia sovrasta per un istante quello del traffico cittadino, mentre il sole illumina gli alti palazzi ottocenteschi ed il Borgo Rossini rimane alle mie spalle, aspettando il mio rientro con il suo tepore familiare.