Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

È casa

di Paolo Morelli

 

Ricordo come prima cosa la cornice di alberi che ricopriva via Catania. Arrivammo, io e la mia compagna, con l’entusiasmo ingenuo ed elettrizzante della prima convivenza, ma con la forte volontà di imparare a chiamare questo quartiere «casa», ancora prima di conoscerne il nome. Perché sì, per me è stato prima «il quartiere dove sono nato», poi è diventato Borgo Rossini. I ricordi si mescolano, tra il mio arrivo da «adulto» e la mia partenza da bambino, quando mi affacciavo su corso Regio Parco oltre venticinque anni fa. Ma quelle immagini sono abbastanza chiare per poter ricostruire un cambiamento.

Il tram che sferragliava lungo corso Regio Parco – solo in certi periodi dell’anno – e che oggi ha lasciato incisi nell’asfalto i rimasugli dei suoi binari, oltre a una vecchia vettura tranviaria ora diventata un centro d’arte grazie al Progetto Diogene. La banchina di fronte all’Italgas che una volta era un parcheggio, e proprio lì, per qualche settimana, accolse una Fiat 126 di mia zia, che mio padre avrebbe dovuto portare a rottamare. La vedevo dal balcone, ogni giorno ne controllavo – chissà perché – la posizione. Tutto intorno ricordo il traffico. Quello, sì, c’è ancora. Ma di sera, con il viale un po’ più largo perché non ancora parzialmente pedonalizzato come oggi, il rumore delle auto che correvano ti faceva credere di affacciarti su un’autostrada.

Il misto di emozioni mi aveva accolto al mio ritorno a Borgo Rossini, avvenuto ormai otto anni fa. Era come chiudere un cerchio, in un certo senso. E dire che la prima casa nella zona fu trovata quasi per caso, dopo aver valutato altri quartieri. Ma qui c’era un sapore diverso, una sensazione di «casa» che ancora oggi provo tutte le volte che attraverso una via o un corso, tutte le volte che mi affaccio in piazzetta, tutte le volte che passo in libreria da Rocco o in edicola da Barbara e Maurizio, oppure alla Lumeria di Lucio. Perché qui ci si chiama per nome ed è questa la «dimensione di borgo» che più mi fa sentire parte di una comunità. Per non parlare del ritorno dalle vacanze, in quel momento, la malinconia di viaggi che si concludono è attenuata dalla vista del ponte Rossini o del ponte delle Benne, il profilo delle case di via Catania o il verde che caratterizza lungo Dora Firenze. È «casa», insomma.

Raccontare l’amore per il quartiere mi pare una forma di restituzione doverosa nei confronti di questa zona, che per tutto questo tempo mi ha lasciato andare altrove per poi ripresentarsi non appena si è ufficializzato il mio ingresso nell’età adulta. Così il mio arrivo in quartiere ha sempre avuto il sapore del ritorno. Spostarsi tra le vie più piccole ha sempre dato una sensazione di familiarità. A ogni passo è come rituffarsi nei ricordi d’infanzia. È un po’ come lasciarsi dominare da Borgo Rossini, che in qualche modo indica i movimenti da compiere e guida ciò che sono e che sento. Altrimenti non riuscirei mai a spiegarmi come sia stato possibile che, nel momento in cui abbiamo cambiato casa, mi sia ritrovato a pochissimi passi dalla scuola materna che ho frequentato da piccolo. Al punto che, dal balcone, posso intravedere il giardino in cui giocavo da piccolo, rivedendo, in qualche modo, me stesso.