Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

A passi leggeri

di Marina Formenti

 

La prima volta che vidi Borgo Rossini fu sei anni fa. Avevo forse vent’anni e tanta leggerezza che mi pesava nella testa. Fu Ale che mi ci portò. Come succede spesso a vent’anni, fumammo erba a casa sua, e dopo poco eravamo prevedibilmente affamatissime, con la serata libera davanti e la voglia di stare insieme, così decidemmo di uscire a camminare sul Lungo Dora.

Lei era entrata in fissa con una pasticceria dove a suo parere dovevamo assolutamente andare, e così arrivammo nel quartiere quella sera, una come tante. Via Reggio era deserta, illuminata da pochi lampioni e mossa da un’insolita brezza serale. Io, che all’epoca mi muovevo per Torino, a me sconosciuta, come un curioso cane vagabondo, rimasi colpita dalla quiete del posto, dai suoi tratti francesi, dalla sensazione improvvisa che mi colpì, tale che una certa innocua ombra al tempo stesso di mistero e familiarità mi sembrava aleggiare tra le panchine e gli alberi e i ciottoli del viale, dai quali, con finta timidezza, spuntavano germogli di piante spontanee. Ale insisteva per entrare, mi guardava fissare imbambolata le case arcuate della piazza, tra il buio della notte, in cui alcuni clacson e fanali si davano il cambio nel concentrico gioco del viavai cittadino, e lo scroscio incessante della Dora, all’altezza del ponte. «Dai che ho freddo e muoio di fame» mi esortò tirandomi per la giacca. Ci guardammo e ridemmo, poi entrammo in pasticceria.

Il caldo del locale ci avvolse, ordinammo due fette di torta e una teiera bollente in due, con dentro un infuso molto speziato che veniva dall’Asia. Quando uscimmo, Ale, ridendo tra l’imbarazzato e il compiaciuto, mi diede in mano un fogliettino. Lo lessi: «Ciao, sei stupenda, mi piacerebbe offrirti un caffè. Numero di telefono. Luca». Luca, il cassiere, non aveva tutti i torti. Ale, occhi scuri, pelle olivastra e capelli ricci afro, ha il fascino della ragazza mediterranea a cui si aggiunge il brivido dell’esotico, tutto concentrato nel riccio energico dei suoi capelli e in quegli occhi scuri, enigmatici e al contempo così vitali. La incitai a starci, a chiamarlo, magari il giorno dopo. Lei rise con gli occhi profondi, un po’ trasognata, guardando il pezzetto di carta. Io cercai di capire a che cosa pensasse, lei tirò fuori il pacchetto di sigarette, me ne offrì una e ne accese un’altra per sé. Lo sfrigolìo lento della brace parlò per lei, che dopo essersi seduta su una panchina del viale alberato, fece cadere inavvertitamente per terra il numero di Luca. Rimanemmo in silenzio a fumare, il freddo ci stava congelando le dita, ma stavamo bene sedute lì, nell’ombra dei tigli sopra noi, le cui chiome, irrigidite dall’inverno, scricchiolavano partecipi.

Avevamo vent’anni, nessun programma prestabilito, solo la voglia di esplorare Torino, nuovo mondo di cui ogni angolo sentivamo di dovervi fiutare gli odori con i nostri musi randagi di ragazze venete di campagna. Così prendemmo a camminare per Borgo Rossini, senza ben sapere dove andare, passò un tempo indefinito, ma prima di tornare nelle nostre tane, avvolte da una la luce fioca che apparteneva ormai più al giorno che alla notte, pensai ad alta voce, come spesso capitava con Ale, «chissà viverci che svolta». «Eh già – disse lei –, ma son più cari gli affitti qua vecchia. Forse fra una decina d’anni, se non saremo, com’è probabile, disoccupatissime!».
Piene di sonno e con le gambe indolenzite tornammo a casa, ridendoci sopra, leggere come sempre.

Sono passati alcuni anni da allora, non molti, ma tante cose sono successe al punto che il tempo tra quella notte e oggi mi appare dilatato come gli occhi neri di Ale nella penombra, quando la pupilla larga si confonde con l’iride e le due parti paiono una cosa sola. In quegli occhi dilatati, in fondo, ci sta la vita che scorre. Così la mia parabola torinese fu: abitare 4 anni a Porta Palazzo, innamorandomi nel frattempo in una casa studentesca (precarissima) in Crocetta, poi 2 anni in San Donato, e infine, in modo inatteso, il felice approdo in Borgo Rossini.

Eccomi qui, che scrivo sul pc davanti alla finestra, oltre i vetri scorgo corso Regio Parco, i tigli, le panchine, i ciottoli muschiosi. A torto di Ale vivo qui da disoccupata, con un affitto abbordabile e dei genitori che danno ancora una mano. Avrei dovuto trovare lavoro a breve, mandare il curriculum in giro, ormai allenata a stare al passo tra le cose della vita che scorrono veloci, imprevedibili, travolgenti e implacabili come quelle di chiunque altro, come il tempo, come le corse dei tassì, come la Dora che galoppa perché vuole il Po, ma tutto invece si è fermato, cristallizzato da settimane. Sul corso non ci sono più vecchi, bambini con gelati colanti nelle mani, corrieri e autisti sfreccianti. Tutto è sospeso, corollato di piccoli vuoti da colmare. Ale non c’è, vive a Milano da più di un anno ormai, e ora che non posso camminare nel mio quartiere, riesumare i nostri passi vagabondi notturni di giovani animali capricciosi mi quieta. Magari dopo la videochiamo su Skype, e le racconto tutto.