Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

Largo Sempione

di Lorenza Actis Foglizzo

 

Sono nata e cresciuta in Barriera di Milano, figlia della prima ondata migratoria torinese, quella dalle campagne piemontesi alla città industriale, i miei genitori arrivavano dal Canavese (mio padre) e dall’Astigiano (mia madre). Dal 1952 al 1980, lontana dal quartiere, ne ho visto i cambiamenti e gli stravolgimenti strutturali e culturali.

Quando sono nata vivevo in una palazzina a due piani in largo Sempione, allora gli unici palazzi prebellici della piazza andavano da via Monterosa a via Santhià, che in quell’ultimo tratto fino a via Spontini non era ancora asfaltata, dopodichè solo due o tre casette e i prati. Quartiere di operai, artigiani, piccoli negozianti che volevano lasciarsi alle spalle gli anni della guerra appena passata e sognavano un futuro migliore per i propri figli. Di fronte ai vecchi palazzi c’erano i giardinetti con la grande vasca della sabbia, le panchine e l’altalena, oltre i giardini c’era via Sempione che la ferrovia separava da via Gottardo. Era uno snodo ferroviario che dalla linea Torino-Milano raggiungeva lo scalo di Vanchiglia, scorrendo sotto il livello stradale. Ricordo che quando eravamo ai giardinetti, uno dei maggiori divertimenti di noi bambini era quello di andare a vedere il treno passare, quando ne sentivamo il fischio in lontananza urlavamo «il treno, il treno!». Allora uno degli adulti presenti ci faceva attraversare la strada e noi, allineati in cima alla scarpata, salutavamo sbracciandoci i macchinisti di quella sbuffante locomotiva da Far West.

Dove ora sorge l’Ospedale Giovanni Bosco c’erano le cascine e i prati, in primavera, alla domenica, i nostri genitori andavano a raccogliere i “girasoli” per fare l’insalata e per sentirsi un po’ nelle loro campagne di origine. Poi è iniziata la grande immigrazione dal Sud: sono arrivati i bambini che a merenda mangiavano pane e pomodoro scandalizzando le nostre mamme (ma chi ha mai visto!), le gru non si contavano più, i palazzi crescevano come funghi, le cascine venivano espropriate, iniziava il cantiere del grande ospedale. Il quartiere cambiava faccia ogni giorno e io crescevo con lui, arrivavano nuove famiglie, avevo nuovi amici, le montagnole di terra che erano di fronte alla mia casa diventavano un secondo giardino e, un paio di volte l’anno, veniva pure il teatro dei burattini.

La città era come un mostro dai mille tentacoli che si espandeva in tutte le direzioni e, da quella zona di estremo confine, sentivi il ritmo della crescita respirare insieme a te.
La Torino del centro era lontana, roba da ricchi, ci si andava raramente, per lo più la si attraversava con il tram giusto quando si doveva andare alla stazione, o a trovare parenti e per l’immancabile appuntamento con le funzioni religiose in occasione dei festeggiamenti per Santa Rita, di cui mia mamma era devota. Quel giorno si prendeva il tram numero 10 al capolinea di via Lauro Rossi e si andava, pigiati come sardine, all’altro capo della città lungo un tragitto che a me sembrava interminabile.

Sono 40 anni che vivo fuori Torino, sono tornata molte volte nella mia vecchia Barriera, che nel frattempo ha subito altre trasformazioni culturali e sociali, dove adesso mi sento un po’ estranea. Faccio fatica a ritrovarmi perchè i quartieri e i luoghi in genere sono di chi li vive e si evolvono con le persone che ci abitano, per poterli amare e capire bisogna esserne parte, la “ mia” Barriera di Milano, che porto nel cuore, resterà sempre quella che fu lo sfondo della mia infanzia e giovinezza.