Porta Palazzo stories

Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle persone

Il ritorno

di Igor Gallo

 

Ottobre 1987, da poco avevo iniziato il terzo anno di perito presso l’istituto agrario di Pianezza, per poter accedere al laboratorio di chimica si doveva indossare un camice bianco ed, essendone sprovvisto, era necessario acquistarlo.

In quegli anni non era così semplice trovare prodotti un po’ fuori dall’ordinario. Internet non esisteva, Amazon sarebbe arrivato qualche decennio dopo; solo negozi di zona e qualche magazzino: Standa, Upim e poco altro, niente ipermercati, globalizzazione. Forse era meglio così, dice chi vorrebbe tornare in quel periodo, io personalmente non saprei, più ci penso e più non riesco a capire quale sia la condizione migliore tra i nostri giorni e quel periodo ormai lontano.

Un sabato pomeriggio, dopo qualche giorno di ricerca infruttuosa, mio padre entrò nella mia stanza, si avvicinò alla scrivania – avevo appena iniziato svogliatamente a studiare per il compito in classe del lunedì successivo – e con sguardo trionfante mi disse: “Ho risolto il problema, mi hanno segnalato che nel mercato dell’abbigliamento di Porta Palazzo c’è un banco, specializzato in abbigliamento professionale, che vende anche i camici da laboratorio”.

Detto e fatto, saltammo in macchina e partimmo in direzione di Porta Palazzo, o “Porta pila”, (come la chiamava mio padre), certi di aver trovato una soluzione ai nostri problemi degli ultimi giorni. Ricordo quel pomeriggio come un piccolo viaggio esotico. Si andava ad esplorare una parte della città che in sedici anni della mia esistenza non avevo ancora conosciuto. Sino ad allora Porta Palazzo faceva parte del mio immaginario in modo un po’ confuso. Sapevo che si trattava di un quartiere molto popolato dagli immigrati del sud che avevano invaso Torino a fine anni Sessanta, mio padre spesso raccontava dei suoi colleghi che li si recavano per acquistare sigarette di contrabbando, da un tizio, che si faceva chiamare “il calabrese” e che viveva in un palazzo di ringhiera dietro al mercato, sapevo poco altro, solo stereotipi.

Arrivammo e ci ritrovammo immediatamente immersi nella calca: banchi di frutta e verdura, confusione, uomini e donne che urlavano e proponevano i loro prodotti, colori, profumi e odori. Fu quello il primo incontro con il mercato di Porta Palazzo, quel luogo che vent’anni dopo avrei frequentato quotidianamente. Andammo nel mercato dell’abbigliamento, un edificio che, se ben ricordo, sorgeva dove, anni dopo, avrei trovato il palazzo del Fuskas, esempio di architettura particolare che non mi ha mai convinto appieno, a differenza di altre opere dell’architetto che mi sono piaciute immediatamente. È un posto che finalmente a fine 2019 aveva trovato una giusta destinazione d’uso, ma che il Covid ha attaccato ferocemente e che spero riesca a riemergere dopo i postumi di questa terribile pandemia.

Trovai il mio camice, lasciai quel luogo e per molti anni non avrei più frequentato quella zona. Completai i miei studi, la chimica che mi aveva portato sino lì mi accompagnò alla laurea e al mio primo lavoro; poi, con l’inizio del nuovo millennio, per ragioni di cuore, ritornai a calcare quelle strade e capii che quello era il quartiere di Torino in cui avrei trascorso la mia vita da adulto.

Ricordo ancora i primi giorni dell’innamoramento, il desiderio di stare insieme, la corsa all’appartamento dell’ultimo piano di quel palazzo di fine ottocento, a due passi dal mercato, senza ascensore ed un po’ fatiscente, che di lì a poco sarebbe diventato casa mia. Ho trascorso vent’anni in quel palazzo: abbiamo messo l’ascensore, rifatto le facciate, ma non siamo riusciti a vincere la resistenza di altri condomini e la fatiscenza delle scale è rimasta così come il primo giorno in cui sono entrato in quell’edificio. Ricordo tanti momenti belli in quell’appartamento, la vista che dominava sul Balon, sullo sfondo gli edifici del Mauriziano e il cupolone della chiesa di Santa Croce, la luce che inondava tutto il giorno quelle tre stanze. Ricordo anche momenti meno piacevoli, molte attività che nel corso degli anni hanno chiuso i battenti: il negozio di sementi, la fioraia, che hanno ceduto il passo ad anonimi internet point con annesso trasferimento di denaro. Ricordo lo spaccio sotto casa, con ripetute chiamate alle forze dell’ordine, situazione divenuta assolutamente intollerabile successivamente al periodo olimpico, quando l’amministrazione comunale decise di chiudere il tristemente famoso “tossic park”, che aveva giustamente portato all’esasperazione i residenti della zona.

Da più di due anni quella casa l’abbiamo lasciata, con un po’ di rammarico, ma ben felici della nuova collocazione, un po’ più ampia, in una zona prospiciente, ma più tranquilla e con una vista equivalente: le Palatine, ancora il cupolone di Santa Croce e gli edifici del Mauriziano. Dalla camera da letto, inoltre, vedo anche il mio vecchio balconcino e lo osservo con tenerezza, come un posto in cui siamo stati bene, ma che non abbiamo rammarico di aver lasciato. Un luogo che ha iniziato a farci amare questo quartiere che, sebbene con tutte le contraddizioni che lo caratterizzano e che speriamo si possano risolvere, non intendiamo lasciare.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini