Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

Venerdì mattina

di Giorgio Finello

Il primo campo israelitico è un grande quadrato, una cinquantina di metri per lato, delimitato da alti muri di mattoni. Lo spazio interno è suddiviso in quattro sezioni regolari, attorno alle quali si sviluppano e si incrociano gli ampi percorsi pedonali.

All’ingresso, un cartello ti avverte che, se fossi venuto domani, avresti trovato il massiccio cancello sbarrato. E anche oggi, che ti è concesso entrare, la regola prescriverebbe di tenere il capo coperto mentre ti aggiri nel recinto. Fai il gesto di sollevare una mano, come per scusarti, e prosegui.

Appena superato l’ingresso la cerchi subito, della giusta dimensione, arrotondata, senza spigoli. La trovi in un angolo, tra asfalto e cemento, grigia e rosa, a forma di grosso fagiolo. La raccogli e la chiudi nel palmo della mano, la sua fresca superficie minerale a contatto con i tuoi polpastrelli.

Quando passi vicino alla sua tomba tiri dritto, come se non l’avessi visto, una scenetta che recitavate ogni volta che capitava di incontrarvi nelle vie della città. Poteva succedere sotto i portici di Via Po, lui che sbucava dal portone del Dipartimento mentre tu marciavi in direzione di Palazzo Nuovo. Fingevate di non vedervi e proseguivate in direzioni opposte. Poi, simulando un improvviso stupore, vi voltavate sorridendo e rifacevate quei tre metri che vi separavano. Che scemi.

Ma oggi non ti volti e passi oltre.

Cammini accanto alle linee disegnate da scure pietre tombali, schierate come bauli pronti per la spedizione, alcune del tutto in piano, altre sbilanciate, come se il terreno sul quale poggiano avesse ceduto, oppresso da una zavorra esagerata.

Chiudi gli occhi un attimo, riscaldato dal sole di una bellissima giornata di quasi primavera che annuncia ai ciuffi d’erba la fine dell’inverno e suona l’ora del risveglio. Fuori, dietro al muro di cinta, si percepisce appena il rumore soffocato dello scarso traffico sul corso.

Come tutte le altre volte non ci sono visitatori e questo deserto ti rassicura, come se ti fosse concessa una manciata di minuti per una cerimonia riservata. Attenua la sensazione di sentirsi fuori zona, l’intruso entrato a violare un universo che non gli appartiene.

E allora prendi coraggio e, come sempre, vai a fermarti davanti a una tomba dalla facciata trapezoidale, due robuste colonne scanalate, il fregio di una colomba con l’ulivo nel becco. Ti infili a metà tra le porte metalliche arrugginite e leggi nomi e date sulle lapidi scolorite, solcate dalle colature secche di piogge ormai storiche. Un brivido nella schiena e ritorni al sole.

Anche la tomba dello scrittore testimone appare sbilenca nel ghiaietto dei sentieri, cinta nell’abbraccio vigoroso dell’edera e sorvegliata dal fusto di un acero nano. Sulla lastra di marmo nero, oltre ai dati anagrafici essenziali, sono incise le sei cifre del vergognoso marchio di infamia.

Tutto il perimetro esterno del campo, dove sono disposte le sepolture più antiche, è un susseguirsi di lapidi annerite, recinzioni danneggiate, pietre sovrapposte, catene penzolanti.

Lo sguardo che vi scorre rimanda l’impressione di un ricordo evaporato, quasi un meditato abbandono, ma anche l’emozione di un’infinita quiete. «… il lutto qui è remoto, travolto dai secoli… prevale la sensazione della pace, del riposo eterno… su tutto si estende il mantello verde dei rampicanti, immagine della vita immemore che sommerge il ricordo…».

Ripassi accanto al tuo amico mentre indirizzi i passi verso l’uscita. Ti fermi qualche momento e mormori tra le labbra il suo nome e le due date. Poi appoggi la pietra, ormai intiepidita dal calore della tua mano, in mezzo alle altre, sopra la scritta di una lingua che non conosci.