Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

L’isola Rossini

di Filippo Zanoni

Più che un borgo, un’isola. L’ho sempre immaginata così questa zona. Ne ero attratto, da anni, quasi magneticamente. Una delle cose che mi affascinava è quella ampia curva della Dora, tra il ponte di corso Regio Parco e quello di corso Tortona. Un vallo di Adriano in stile torinese, che separava il mare-città dall’isola tanto desiderata. Delicata linea curva così stridente con la rigida pianta regolare di molti quartieri torinesi. Un confine al di là del quale cambiava tutto, come faceva il muro di Berlino nella Germania.

Volevo esserci, in questo melting pot in salsa sabauda. Sentivo che, per la mia indole, quello era il posto giusto dove stare. Ci riuscii, per un colpo di fortuna, all’inizio del 2005. Conquistai il mio posto nell’isola dei sogni affittando due camere in via Cagliari, quasi all’incrocio con corso Verona. Un primo piano con vista sugli alberi, un’aria e un balcone. Dal mio sogno di andarci a vivere (covato come un gigantesco uovo fin da metà degli anni ‘90) era passata un bel po’ d’acqua nella trincea dell’alveo della Dora.

Stare a borgo Rossini, all’inizio di questo secolo, voleva dire essere contemporaneamente in più luoghi. Non in centro, ma vicino. Non in barriera, ma non lontano. Non nel verde collinare, ma in prossimità. Non tra i borghesi della Crocetta, ma in mezzo a tutte le classi sociali. Una sorta di San Salvario, ma meno selvaggia. Un frullato perfetto di tutte le “anime” della città.

In un quasi decennale periodo di latenza seguivo i mutamenti della zona: via Catania e corso Regio Parco migliorati, la creazione del Basic Village, l’affermazione di Gobino e l’inizio della trasformazione delle vecchie fabbriche in loft. Borgo Rossini stava cambiando parzialmente pelle: un processo lento ma inesorabile. Fu un’accelerazione del processo di ibridazione, amplificato ulteriore dalla nuova passerella pedonale che dava a corso Verona una prospettiva fisica e tangibile verso la città.

Arrivarono quindi nella riserva-isola facce mai viste, soldati di conquista e naufraghi in cerca di Itaca, come lo ero stato io anni prima. A qualcuno diedi loro il benvenuto, salutandoli per strada, come si fa nei sentieri di montagna.
Nel frattempo, in quegli anni, da qualche abitante con più “anzianità” appresi anche storie lontane di sparatorie, case che erano bordelli e nomi che in realtà conducevano a posti un tempo ben precisi (come corso Regio Parco).

Già: la toponomastica, i nomi delle vie. In Borgo Rossini mi affascina anche l’intreccio di Nord e Sud. Sei a Catania, ma se vuoi puoi girare e trovarti a Parma. Sei a Cagliari, ma poi incroci Verona. Ti immergi nel mare rettilineo di corso Palermo, ma capita di ritrovarti a Bologna. C’è stato metodo nel sceglierli? Se sì: è stato stupendo, perché riflette l’anima meticcia di questo pezzo di città.

Chissà come sta ora quell’isola, in questi tempi grami e gravidi d’incertezza. La abbandonai nel 2014, a malincuore. Ma, fino a qualche settimana fa, ci tornavo spesso. Ogni scusa era buona: salutare un amico, prendere un caffè da Torre e vedere quali altre case erano state ristrutturate. Muri abbandonati da tempo conterranno a breve nuove facce. Edifici appena costruiti saranno animati da nuova gente e spariranno altre botteghe storiche.

Ma io “sono” ancora là: a distanza di 6 anni, sul citofono di quel portone di via Cagliari, nessuno ha ancora tolto il mio nome.