Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

Virgilio

di Dario Voltolini

Virgilio abitava in un appartamento al primo piano di un palazzo costruito all’inizio degli anni ’60 poco lontano dal lungo e largo fosso chiamato “Trincerone”.
Non ricordo come diventammo amici.
Non ricordo, a dirla tutta, nemmeno se diventammo amici.

In quello strano periodo fra il tramontare delle medie e il sorgere del liceo, quando mentalmente si è inclini a una certa ridefinizione del giro di amicizie, era semplicemente capitato che mi trovassi con una certa frequenza ad andare a trovarlo a casa sua. Forse ci si era conosciuti all’oratorio. Forse era una conoscenza indiretta, vale a dire l’amico di un amico, o l’amico di un amico di un amico.

Virgilio era un tipo taciturno: non usciva mai nel tempo libero, se ne stava a casa da solo – i suoi erano fuori a lavorare – mentre i pomeriggi di Barriera perdevano di luce verso la sera, oggi direi che la sua stanza era esposta a Nord, mai un raggio di sole, in nessuna stagione. E d’altra parte tutta la Barriera possiamo dire che è esposta a Nord. Per raggiungere la casa di Virgilio facevo un bel pezzo a piedi (io abitavo nel quartiere Aurora, che confina con Barriera di Milano, ma è in Barriera che stavo cominciando a gravitare passando dai giardinetti del Toro all’Oratorio di Gesù Operaio).
(Tra parentesi, Gesù non mi risulta che sia stato mai operaio, al massimo avrà aiutato Giuseppe in falegnameria. Se la chiesa fosse stata in Aurora, forse si sarebbe chiamata Gesù Garzone, ma in Barriera, per forza: Operaio).
(Altra parentesi: i giardinetti erano “del Toro” nel senso delle “Assicurazioni Toro” e non della squadra del Torino).

Insomma Virgilio se ne stava in casa nel perenne imbrunire delle giornate di Barriera e aveva una chitarra. Salivo da lui e mi sedevo nella sua camera di ragazzo, lui di fronte a me, e cominciava ad arpeggiare. Non ci dicevamo quasi niente. Per questo non so se posso dire che eravamo amici.
Io direi che Virgilio era un po’ strano, ma chissà cosa diceva lui di me. Eravamo forse tutti e due strani (non esageratamente, ma un po’ sì): due ragazzini, uno che se ne sta chiuso in casa con una chitarra e l’altro che parte e, a piedi trapassando le strade disperate e magnifiche della Barriera, va a trovarlo, si siede e sta.
Virgilio somigliava moltissimo a Bobby Fischer quando aveva la sua età ed era già un genio.
Suonava bene la chitarra, Virgilio? Non lo so, non saprei dire. Non me ne intendevo: era già una cosa eccezionale per me vedere che della gente ricavava suoni dallo strumento con quelle disposizioni delle dita; cercarono di insegnarmi qualche accordo, ma io per passare da un Do maggiore a un Sol maggiore avevo bisogno di prendere la mira con ciascun dito e il tempo passava e insomma era già sera.

Cosa suonava Virgilio? Secondo me molti erano pezzi inventati da lui medesimo. Immagino che nei pomeriggi precedenti la nostra frequentazione, lui, seduto dove era adesso, al massimo con la luce della sola lampadina sulla scrivania, tentava le corde, memorizzava certe configurazioni, così ora dopo ora, da solo, pezzi solo strumentali, altrimenti avrebbe dovuto pronunciare qualche parola cantando e non era proprio da lui. Passava così tutti i pomeriggi. Con me di fronte, certo non faceva cose diverse: suonava quei suoi arpeggi, senza variazioni di ritmo, senza pause, senza alzare la testa, senza guardarmi. Però sorrideva, Virgilio. Non possiamo chiamarlo un “musone”, no. A differenza di Fischer non sembrava pazzo e anzi dimostrava in quei sorrisi tranquilli un carattere forse buono.

La mia domanda è. Anzi le mie domande sono due.
Quando, come e perché abbiamo smesso di frequentarci Virgilio ed io?
E.
Cosa avrà fatto Virgilio, poi, nella sua vita?
Ci siamo persi di vista così come ci si era conosciuti. Cioè come pezzi di racconto in dissolvenza cinematografica, in entrata e in uscita. Dalla nebbia siamo emersi e poi nella nebbia siamo tornati.
Non seppi più nulla di lui esattamente come non sapevo nulla di lui prima che lo conoscessi. Nulla del suo passato mi ha raccontato. Di nessun progetto per il futuro mi ha messo al corrente. E io lo stesso.

Ho voluto bene a Virgilio? L’ho ammirato come chitarrista? Mi piaceva la sua figura?
Non lo so.
Non avevo tensioni in sua presenza. Non mi dispiacevano quegli arpeggi. Lo trovavo di costituzione atletica nonostante la vita sedentaria che gli vedevo fare. Ma sono tutte reazioni registrate come dati burocratici, come appunti su un foglio.
Non saprei veramente dire che rapporto avessimo, che relazione abbiamo avuto. Nemmeno la durata della frequentazione mi ricordo — forse nemmeno un anno.
Tuttavia è sicuramente un fatto, per quanto forse curioso, singolare, che se io penso alla Barriera, nonostante le interminabili giornate percorse nel suo perimetro, nonostante le tante persone frequentate nei suoi luoghi desolati e fieri, nonostante le numerose amicizie nate lì, alcune ancora vive oggi a distanza di così tanto tempo e spostamenti e traslochi, se io penso alla Barriera mi viene in mente in primo luogo e involontariamente Virgilio. I nostri pomeriggi enigmatici. Le ore. I suoni e le ombre.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini