Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

Pendolare di Barriera

di Daniela Braidotti

 

Ho vissuto la Barriera come pendolare, per tutti i giorni di scuola di più di quarant’anni. Qualcuno storcerà il naso, perché arrivare al mattino e ripartire nel tardo pomeriggio, o quasi verso sera, non è proprio come viverci.

Si rimane un po’ forestieri, dei conoscenti che magari vedi ogni giorno e che inviti anche a prendere un caffè o a cena, ma che non senti proprio come appartenenti alla tua stessa cerchia. Da pendolare, si patisce un po’ questa appartenenza a metà.

Si mantiene però la capacità di sorprendersi e di lasciarsi meravigliare dai particolari liberty dei balconi e delle case, dalla presenza in contemporanea di nuovo e antico, di stradette strette e curve e larghe arterie che vanno verso l’autostrada, dalla coesistenza di palazzi alti e di case quasi di bambola che seguono le curve e dei complessi abitativi con giardini del primo Novecento, dalle montagne che spuntano al fondo di via Feletto nelle giornate limpide, dalla scoperta di odori e cibi sorprendenti, come i lampascioni al mercato o i taralli, dalla presenza di mestieri antichi come il cestaio di via Baltea. O le finestre della Gabelli, illuminate in una mattina d’inverno.

E mi affascina la toponomastica: i musicisti italiani, i paesi del Canavese, le cime delle montagne, le città capoluogo di regione o di provincia, gli scienziati, le cittadine della Val d’Aosta e del Piemonte, i fiumi.

L’inaspettato ti attende a ogni angolo, in Barriera, anche quando non è tanto bello: i materassi e i divani sfondati nei cassonetti vicini alla scuola, le cacche di cane dove passano i bambini ogni giorno, l’erba che cresce alta tra le fessure dei marciapiedi davanti a negozi che hanno chiuso da tempo.

Ci sono arrivata un po’ per caso, dopo aver vinto il concorso di maestra: il professore che mi aveva preparata aveva speso parole di apprezzamento verso il direttore della Gabelli di allora, Giuseppe Sacchetti; e mi sono accorta che ero già passata per le strade di Barriera accompagnando una compagna di scuola, Milena, da Maria Ausiliatrice a casa sua, vicino alla Chiesa della Madonna della Pace; un po’ rientrava di sguincio anche nella storia di famiglia a causa di Pietro Cavallero, che aveva tenuto in ostaggio mia mamma durante una rapina a Cirié alla fine degli anni ’60.
Pensavo di andarmene, da qui, poi ci sono rimasta perché era troppo affascinante e sfidante veder passare il mondo nelle nostre aule. E sono convinta, e quante volte me l’hanno sentito dire, i miei colleghi, che basterebbe insegnare cinque anni alla Gabelli per poter affrontare qualsiasi altra sfida con un bagaglio sicuro di mente e cuore.

E proprio attraverso i progetti che hanno coinvolto la scuola ho imparato a conoscere e ad amare questo quartiere quasi quanto lo ama Nunzia Del Vento, che ha insistito tanto per farci capire il valore della collaborazione con il territorio per la costruzione di una cittadinanza attiva e consapevole, ben distante dall’idea riduttiva dell’educazione civica ridotta a materia di studio: tutto il lavoro fatto per intitolare i giardini a Peppino Impastato, la collaborazione con Urban Barriera e la Circoscrizione, le manifestazioni come Liberinbarriera e Adotta un monumento, i percorsi su Millo, l’allestimento del Museo scolastico, la collaborazione con il MEF, le biblioteche e le associazioni di zona, le ricostruzioni storiche fatte con l’Officina della memoria, il rapporto con i nuovi residenti e con le famiglie che ci abitano.

Adesso che sono in pensione, e con il blocco di questi ultimi tempi, in Barriera ci torno più raramente, ma ogni volta che imbocco via Monterosa è come tornare in una casa in cui qualcuno ti aspetta, non ti chiede dove sei stato ma ti dice solo: “Siediti, è pronto”.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini