Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

Via Catania 5

di Chiara e Maurizio Dalmasso

Borgo Rossini è la cornice di un’infanzia operosa e serena, negli anni ’50 del secolo che abbiamo salutato l’altro ieri e già chiamiamo “scorso”. I bambini, a quell’epoca, si muovevano nel quartiere con ragionevole tranquillità. Il cortile della casa in cui sono nato, in via Catania 5, era luogo d’incontro e di gioco per tutti i ragazzi che abitavano nel palazzo: appena possibile, correvamo fuori dalle mura domestiche per far due tiri al pallone, sorvegliati dallo sguardo vigile di un inquilino qualsiasi. Ci si fidava, tra tutti, e ci si dava una mano. Le nostre partite di calcio spesso non facevano nemmeno in tempo a iniziare, perché qualche mamma si affacciava al ballatoio e ci richiamava all’ordine: nel clima di ricostruzione del dopoguerra, tutti i membri della famiglia erano tenuti a cooperare. Per questo motivo avevo discreta frequentazione delle botteghe del quartiere e ne ho vivida memoria.

Il profumo di pane era una costante dei miei risvegli: proveniva dal forno, situato al piano terreno, proprio sotto il balcone di casa mia. In panetteria si vendevano (rigorosamente sfusi) anche i celebri grissini torinesi, il riso e la pasta, che il negoziante traeva fuori dai capienti contenitori a cassetto con una paletta, o direttamente con le mani. Piccolo paradiso dei golosi, il forno del cortile esponeva un vasto assortimento di caramelle, il cosiddetto “pastigliaggio”, che non mancava mai nelle case dei nonni. Gli acquisti, sempre parchi, sufficienti a soddisfare il fabbisogno giornaliero, venivano impacchettati in carta porosa, eccetto il pane, per cui avevamo i nostri sacchetti di tela bianca, «da lavare sovente per non fare brutta figura», diceva mia mamma. Non si liberava mai della sua veste di rigore e parsimonia. Capitava raramente, infatti, che ci consentisse di spingerci fin da Maina, nella sua sede primigenia all’angolo con via Pisa, per comperare qualche pasta dolce; più spesso ci accontentavamo dei biscotti rotti durante la lavorazione, venduti a costi bassi ma comunque piacevoli, inzuppati nel latte del mattino. Quel latte che la bottega di via Catania versava con mestoli graduati, un quarto di litro o mezzo litro, nei contenitori metallici di ogni famiglia: solo dopo il 1952, o forse ’53, comparve il latte in bottiglie di vetro, già pastorizzato, bevibile anche crudo. E le bottiglie non si gettavano nei rifiuti urbani! Una volta lavate e lasciate asciugare, venivano restituite e così riutilizzate.

In via Reggio, poco oltre la piazzetta dell’orologio, c’era il “pizzicagnolo” o “salsamenteria” che dir si voglia (in entrambi casi si tratta di termini obsoleti), che esponeva scatole enormi di tonno in filetti spessi, tutt’altro dalle briciole triturate che teniamo oggi in dispensa. E poi acciughe sotto sale, salumi di ogni tipo, vasi di vetro colmi di mostarda di Cremona, una tradizione della domenica a casa nostra: accompagnava il bollito, mamma dixit. Tutto si acquistava in piccole quantità e i barattoli venivano avvolti in carta oleata nella parte interna, che noi bambini stringevamo tra le mani con fierezza, percorrendo di corsa il tragitto di ritorno, soddisfatti di aver portato a termine il nostro compito quotidiano. Non potrò mai dimenticare i pacchetti di zucchero, realizzati di volta in volta ripiegando quella carta blu che doveva essere accuratamente conservata: era un ottimo impacco per guarire gli ematomi dei bambini. Sono diventato medico, ma ancora oggi non ho una spiegazione scientifica del fenomeno.

Il massimo senso di responsabilità lo provavo quando mamma mi spediva al mercato: niente più di qualche bancarella, montata direttamente in strada, proprio di fronte a casa mia, e caricata ogni mattina di prodotti stagionali e a km 0. Frutta e verdura fresche (certo, nulla di esotico), coltivate nei terreni vicini alla città dagli stessi contadini che le vendevano. Quando il mercato scompariva, nelle prime ore del pomeriggio, la strada diventava il campo da calcio dove giocare quasi indisturbati, dribblando i rimbrotti di qualche vigile urbano di passaggio. Tra un tiro e l’altro, nei giorni più torridi dell’estate, poteva scapparci una tappa clandestina in latteria: gli spicci per una pallina di gelato si trovavano sempre.