Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

Borgo Rossini, anni ‘30

di Beppe Zauli

In tempo di epidemia, anzi di pandemia.

La forzata clausura di queste settimane mi spinge spesso alla finestra che dà sulla sottostante piazzetta e mi domando perché mai l’amico Rocco debba tenere chiusa la sua libreria, fonte di svago e di cultura, tanto più ora indispensabile per scongiurare le incombenti depressioni.
Questa notte ho fatto un sogno, forse perché la sera precedente avevo riletto alcune pagine del romanzo di Jean Giono “L’ussaro sul tetto”, che racconta una storia di spada e d’amore nella Provenza del 1830, impestata dal colera, che ben si collega all’odierna pandemia da coronavirus.
Nel sogno mi son risentito bambino, prima terrorizzato da un incubo e poi rasserenato dall’immagine dei miei genitori. I ricordi, i ricordi hanno la magia di farti rivivere tutta una vita e, anche se dolorosi a volte, sono pur sempre un balsamo per l’essere tuo.
Così mi son riletto ciò che avevo ricordato e scritto anni addietro su questo Borgo Rossini.

Per avvicinarsi al posto di lavoro di mio padre, la mia famiglia, nell’estate 1933, si era trasferita nel Borgo detto Rossini, in via Reggio n.17, che prosegue sull’asse della via Rossini, oltre il ponte omonimo sulla Dora.

Io avevo otto anni, appena terminata la 2ª classe elementare alla scuola N. Tommaseo, abitando nella via Fr.lli Calandra; avevo lasciato con rimpianto il movimentato Borgo Nuovo, con il Valentino e i Giardini Cavour, meravigliosi palcoscenici dei miei primi giuochi infantili. Il passaggio alla nuova residenza di via Reggio, all’angolo di via Parma, da dove diparte il viale Catania che porta al Camposanto, mi apparve (così come a mia mamma) molto cupo: case severe di fine ‘800, bassi fabbricati industriali e laboratori di marmi e bronzi funebri, strade silenziose e pressoché deserte…

Ma presto mi abituai a questo rione, staccato dall’assordante città, ma a pochi passi dai Giardini Reali, via Po, piazza Castello; soprattutto piacque, a me bambino (svelto segugio di mio fratello maggiore e i suoi amici), perché dava la possibilità di sfogare la nostra sete di avventure salgariane, lungo le sponde della Dora e il borgo Vanchiglia, confusamente delimitato da lungo Dora Firenze, il corso Regio Parco e il corso Novara; ufficialmente, negli anni ’30, era inglobato nel borgo Vanchiglia, nella zona detta “borgo del fumo” per le tante emissioni delle ciminiere delle fabbriche e dell’officina del gas.

Nella piazza prospiciente il Ponte Rossini (ricostruito nel ’27) esistevano all’inizio del ‘900 la farmacia dei dr.i Tognacca e il Caffè Angolare, tuttora in esercizio; nel mezzo il Panificio Aimone, che al mattino inondava il vicinato dell’antico profumo di pane, oggi sconosciuto. Nel primo tratto della via, ricordo la pizzeria dei Fr.lli Scialone, che sfornava tra l’altro una impareggiabile farinata (nel dopoguerra, il figlio ne farà un rinomato locale in via G. Verdi).

All’angolo con via Pisa, dove sorge il disarmonico stabile di sette piani, c’era una bassa costruzione della vetreria dei Fr.lli Lodi; passando, si vedevano a certe ore colare le fusioni incandescenti del vetro. La piazzetta all’incrocio con via Catania è rimasta come allora, senza la vasca della fontana sempre asciutta… Il prosieguo della via non è mutato, se non che all’angolo della casa dove abitavamo, ricostruito in altro stile  dopo il crollo del bombardamento del 13 luglio ’43. In fondo alla via esisteva il laboratorio-negozio di “Colori e Vernici” di Grosso Pietro, indimenticabile persona di straordinaria affabilità e munificenza. Alcuni negozi di alimentari lungo la via rappresentavano una locale comodità per le massaie che non potevano spingersi a Porta Palazzo.

Sul corso Firenze, dall’altra parte della piazza, il bel palazzo che c’è ancora, costruito sul tardo ‘800, si diceva fosse stato ai suoi tempi di proprietà della sig.a Rosa Vercellana (la Bela Rosin di V.Emanuele II).

Un’attrattiva per me gioiosa, alla domenica mattina, era la visita con mio padre al piccolo zoo di via Goldoni, dei Fr.lli Molinar (cacciatori, allevatori e commercianti di animali esotici), dove si avvicendavano preziose specie di uccelli, bestie feroci, coccodrilli, giraffe, serpenti…; le più divertenti, per noi bambini, erano le scimmie, dal gorilla alle bertucce; queste, stridendo, ci chiedevano leccornie (e ne ricordo una spassosissima che fumava la sigaretta).

Nell’ottobre di quell’anno ’33 passai alla 3ª classe della scuola “Michele Lessona” in corso Regio Parco: la giovane maestra mi prese subito in simpatia, perché ero allora uno scolaro attento, tranquillo, ordinato; a fine anno ricevetti in premio un libro della collana “La scala d’oro” con bellissime illustrazioni e teneri racconti: Piccoli di animali e animali piccoli, che lessi e rilessi più volte; imparai a conoscere e amare un mondo sconosciuto di esseri viventi, docili e intelligenti, troppo spesso sfruttati dall’uomo (e mi vergognai dei dispetti prima fatti alle povere scimmiette dello zoo). 

La 4ª e la 5ª classe le superai con il m.° Gandolfo, paterno ed eccellente nell’insegnamento non solo scolastico, ma di morale e di vita. Quale alunno 1° della classe, ricevetti in premio il Marco Polo e l’anno seguente il Cristoforo Colombo, due grandi e magnifici libri illustrati e preziosamente rilegati; e alla fine del ciclo elementare l’ambito premio di Lire 10, su libretto di risparmio!

Gli anni passarono veloci, mentre il quartiere si faceva più animato e accogliente e cresceva il benessere nella comunità; c’era allora un sentimento di fratellanza tra le famiglie del vicinato e ci si aiutava uno con l’altro nei momenti difficili.

Il nostro si chiamava borgo del fumo, ma io ricordo che, salvo nella brutta stagione, vedevo il cielo sempre limpido e azzurro e sullo sfondo le montagne nitidissime. Erano rare le automobili e la bicicletta era un bene pregiato; per le lunghe distanze si prendeva il tram, ma normalmente si usavano le gambe; mancava il frigorifero, la lavatrice, l’aspirapolvere, ma il cibo era sempre fresco e la casa pulita; poche erano le abitazioni col bagno, ma nella tinozza o nel semicupio ci si lavava spesso e volentieri; a scuola la maestra ogni lunedì mattina controllava testa e unghie degli alunni/e.

Il lavoro non mancava, le industrie si sviluppavano e ammodernavano; anche le più importanti erano rette da imprenditori capaci e coscienziosi, che non miravano al solo loro interesse; l’Azienda era, come si può dire, una grande famiglia, che opera per il bene comune.

Ricordo la ditta dove era impiegato mio padre – “Ing. Olivetti & C. Apparecchiature elettriche” – e il rapporto sincero e appassionato che esisteva tra il titolare e le maestranze; ma altrettanto lo era alla Ditta Ratti Occhialeria tra il Comm. Ratti e il suo personale e così via… non c’erano sindacati.

Poi arrivò l’uragano… e la guerra.

Io lasciai il Borgo Rossini, dopo 10 anni di permanenza, il 13 luglio del 1943, senza più l’abitazione e solo con mio padre, e vi ritornai con mia moglie dopo 50 anni, forse attratto dai ricordi del tempo remoto…