Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

Zona E 8

di Beppe Turletti

 

C’è una parte di Barriera che sembra uno spin-off del quartiere a cui appartiene. Nasce quasi dal niente verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso: è la Zona E 8. Non Borgata o Quartiere, ma una fredda e asettica definizione topografica.
Il titolo di un film distopico. Una mossa di Battaglia Navale: E 8, costruita e fondata!

Grandi complessi edilizi si sostituirono a quella che “una volta era tutta campagna”, proiettando le loro ombre sui prati tra via Petrella, via Bologna, corso Novara. Tra questi anche il vecchio campo di calcio Renato Casalbore, il giornalista fondatore di Tuttosport, caduto sull’aereo del Grande Torino. In alcuni di questi, nelle pozzanghere permanenti, ci trovavi anche rane e girini.
Palazzi alti nove piani, una foresta di mattoni e cemento dove, in breve tempo, più di 8000 nuovi residenti portarono la loro la vita in questa parte di Torino: via Leoncavallo, Ponchielli, Cimarosa, Pacini. Petrella, Tollegno…

Alcuni già erano “di qui” ed avevano lasciato la vecchia abitazione della parte “storica” di Barriera – quella intorno a corso Vercelli, Giulio Cesare, via Montanaro e Monterosa; messa su famiglia avevano mantenuto il legame con le case e le famiglie d’origine.
Molti – e io tra questi – arrivammo un po’ da tutte le parti della città a prendere possesso degli appartamenti di nuova costruzione, quasi tutti in Cooperative Edilizie.
Nuclei famigliari spesso appena creati, giovani coppie, tanti bambini.
Immediatamente nasce l’esigenza di creare spazi scolastici ed ecco che in un angolo al fondo di via Leoncavallo vengono costruiti il nido Camilla Ravera e la scuola materna “Angelita di Anzio”.
Poco più in là, in fondo a via Tollegno, quella che chiamavamo “la scuola verde” intitolata a Salvo d’Acquisto.

L’edificio era il luogo dove potevano prendere forma le idee di pedagogisti d’avanguardia (Torino fu in quegli anni una delle belle realtà del Movimento di Cooperazione Educativa) e il progetto di quella scuola rappresentava quanto di più sperimentale si potesse fare all’interno delle attività didattiche: grandi spazi senza separazioni per gli scambi tra gli alunni, moltissime aree attrezzate e una piscina con due vasche con differenti profondità. Nell’anno scolastico 1977-78 la scuola inizia l’attività con dieci classi.
Oggi è un vecchio dinosauro lasciato alle incurie dall’Homo burocraticus.

Al mattino, verso le 8, file di formiche adulte spingevano passeggini o tenevano per mano formichine che si dirigevano verso le rispettive scuole. La sonnolenza non permetteva grandi slanci e prevalevano le lamentele per il caldo sonno appena lasciato tra le lenzuola.
Verso le 16 le vie si animavano, bambini e genitori formavano gruppi coloriti dalle richieste di merende da comprare dal pasticcere Principe, la cui bottega praticamente era sempre aperta: ingresso diurno in via Tollegno, notturno in via Ponchielli.
E poi i tantissimi “posso andare a giocare da….” o “può venire… da noi?”.

Abitavo con mia moglie e mio figlio nel complesso denominato la Stalingrado di Torino, un insieme di tre palazzi per un totale di 252 alloggi. Più di 150 tra bambini e adolescenti ci vivevano godendo degli ampi spazi aperti a disposizione, di una pista rotonda in cui affrontarsi in partite a calcio giocate in tondo, di infiniti anfratti dove praticare il nascondino e chissà cos’altro.
Anche noi genitori, soprattutto nei numerosi mesi in cui la temperatura esterna lo permetteva, davamo vita a nuclei di discussione: si affrontavano le questioni legate alle case ancora da finire, i rapporti col quartiere, come utilizzare la quindicina di locali comuni esistenti nella nostra cooperativa. In uno di questi, non essendoci abbastanza posti nel nido e nella scuola materna, si dette vita ad un “Asilo sociale” dove i genitori non occupati facevano attività coi piccoli.
In queste occasioni si riuscivano a combinare, dal niente, cene che in un momento vedevano riunite molte decine di persone, organizzate con cavalletti, piani di legno, tovaglie, piatti posate e, naturalmente, ogni possibile cibo preparato in breve tempo.

Spesso, all’uscita dalle scuole, si allungava la passeggiata fino in via Petrella, con una breve sosta in via Aosta dove, tra le basse case che avevano conosciuto bene quella “campagna” che segnava allora il confine, c’era l’Osteria del Gelso, (l’Osteria non c’è più, il gelso si).
Da quelle parti, praticamente per tutto l’anno, si sentivano le voci dei ragazzini e degli allenatori della Polisportiva Centrocampo che ha rappresentato – e ancora rappresenta – una delle poche realtà di socializzazione della zona.
Oltre ad avere le tante squadre di calcio per le varie età, la Polis – come la chiamavamo tutti – si occupava anche della piscina all’interno della scuola elementare “verde”. Ovviamente anche la piscina si chiamava E 8.
Oggi anche lei vive nel silenzio dell’abbandono: colpita e affondata.