Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

La mia Barriera che non c’è più

di Antonio Tarallo

 

Sono nato, a metà degli anni ’60, in via Pedrotti, nelle case di Benedetto Pastore, quello delle serrande. Era tecnicamente nel quartiere Aurora ma la mia vita si svolgeva tutta “di là”, bastava attraversare corso Novara e ti si apriva un mondo: Barriera di Milano.
Di là c’erano la scuola (un prefabbricato costruito nel giardinetto di fronte al sagrato della chiesa di Gesù Operaio), l’oratorio, la società sportiva Labor, il mercato, il barbiere “da Umberto” (taglio a scodella e giornaletti sconci per tutti), il medico di famiglia e Bruschetta. Era il primo minimarket a conduzione familiare; potevi comprare il prosciutto, la conegrina, il lucido da scarpe, la pasta. Ora, poco distante, hanno appena costruito un ipermercato… ma, loro, che ne sanno di Bruschetta!

Mia mamma, sarta, mi mandava sempre in merceria, “Al bottoncino d’oro” in piazza Foroni, a comprare cerniere e bottoni. Per arrivarci costeggiavo tutto il muro di cinta della CEAT, pervaso dall’odore di gomma e dai rumori della fabbrica, immaginando di essere Mennea e cronometrando, a mente, il percorso mi lanciavo in una corsa a perdifiato per tutta via Ternengo, impiegando sempre meno tempo ad ogni tornata. In quegli anni, all’oratorio di Gesù Operaio, organizzavano le Olimpiadi per ragazzi: mi iscrissi e vinsi la gara dei 100 metri realizzando il mio sogno di essere Mennea.

In corso Palermo, invece, c’era la Trattoria Toscana. Quando ero bambino, un amico celibe di mio padre, spesso, ci invitava a mangiare con lui la ribollita o una buona bistecca fiorentina. Negli anni ’80 divenne il mitico “Damas”, era la nostra birreria di quartiere. Mantennero il bancone bar della trattoria, era come un segno di continuità. Dopo gli allenamenti di basket alla Labor o, semplicemente, quando si aveva voglia di bere una buona birra in compagnia si andava lì. Quante sere, quanto ridere spensierato. Ci abbiamo lasciato i nostri primi stipendi ma quella birreria ci trasmetteva un senso di appartenenza al quartiere unico. I titolari decisero di provare strade diverse e così la nostra birreria divenne la Pizzeria Claudio. I primi anni mantenne ancora il bancone della birreria, era come un cordone ombelicale che mi teneva unito al passato. Anche la pizzeria, col tempo, divenne un riferimento nel quartiere al punto da lanciarsi in un progetto di ampliamento dei locali. Nella ristrutturazione il vecchio bancone venne dismesso e, con esso, in pochi anni, anche Claudio dovette chiudere i battenti stritolato dalla crisi economica.

Nel 1990 ho scavallato corso Novara ed abito ufficialmente in Barriera. In questi anni ho assistito alla trasformazione del quartiere, forse il più multietnico d’Italia, che non tradisce le sue radici popolari. Ormai chi ha la possibilità economica “va via da Barriera” mentre chi non ha possibilità economiche “arriva in Barriera”. Purtroppo il degrado, ancor più dello spaccio, la fa da padrone: marciapiedi pervasi dal nauseabondo odore di deiezioni; lavatrici, camere da letto, materassi, cucine intere abbandonate per strada; gente costretta a fare il bidet ai “Toretti” sono, ormai, la triste verità quotidiana.

Completamente abbandonati dalle istituzioni, per mancanza di interessi economici, non si è stati capaci di trasformare la ricchezza proveniente da tutte le culture presenti sul territorio in una forza trainante per agevolare integrazione, convivenza e rispetto. Come scriveva Adriano Olivetti nella “Città dell’Uomo, “i quartieri non vivranno se in essi non verrà disegnato un cuore e se resteranno solo un reticolo senz’anima”.
Ci resta il ricordo di ciò che era Barriera, la speranza di ciò che potrebbe ancora essere, la desolazione di quello che è.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini