Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

La casa dell’attesa

di Andrea Demarchi

Come i giovani di tutti i tempi e di tutti i paesi, anch’io, a mio tempo, ho vissuto le mie prime esperienze fuori casa in condivisione con altri, ovvero sono andato a vivere da solo insieme a tre, a volte anche quattro persone. Escludendo una brevissima (un paio di mesi circa, non di più) e ben poco significativa parentesi a Porta Palazzo nella prima metà degli anni Ottanta, una Porta Palazzo quindi ancora molto hard e molto strong con tutto il suo bel coté di emarginati e disadattati e non il salotto multietnico e inesorabilmente caratteristico che è oggi. A parte questo breve soggiorno nella Porta Palazzo violenta ai tempi dell’apprendistato universitario, la mia prima vera e propria trasferta in città dal borgo natìo selvaggio risale alla seconda metà dei Novanta.

Gli allegri anni del grunge e degli albori di Internet, quand’ormai poco più che trentenne fui attirato dalla sirena magica di un amico che da Bologna aveva deciso di trasferirsi a Torino ed era alla ricerca di qualcuno, un coinquilino, che dividesse con lui le spese. Alla fine, nella casa in pieno centro fra piazza Cavour e via Roma, in una palazzina a due piani attaccata alla chiesa della Madonna degli Angeli di via Carlo Alberto, di coinquilini ne arrivarono addirittura tre, ché insieme al sottoscritto si unirono anche altre due ragazze all’epoca studentesse universitarie in cerca di sistemazione.

Entriamo con una vertiginosa ellissi negli ininterpretabili anni Duemila e ci troviamo in via Passalacqua, fra Porta Susa e piazza Statuto, nell’appartamento, grande e luminoso, che questa volta dividevo con un solo inquilino, rimasto orfano del proprio compagno, il quale aveva pensato bene di abbandonare da un giorno all’altro non solo la casa ma molto più drammaticamente la loro vita insieme. Questo ragazzo, del quale divenni col tempo non solo coinquilino ma anche grande amico, si chiamava e si chiama, di cognome, Furioso, così che l’enunciato “Demarchi Furioso” ribadito sul campanello, veniva ogni volta svelandomi qualcosa di nuovo sugli aspetti più reconditi, inabissati, della mia epica persona.

In questo mio personale itinerario di dimore torinesi, la casa di via Catania in Borgo Rossini ha rappresentato una svolta che non esiterei a definire epocale. Alla benedetta età di quarantatré anni sono andato a vivere da solo e basta, facendo a meno di condividere spazi e, talvolta, stanze, o di pagare una quota anche solo per un posto letto. Potrei definirla sbrigativamente una forma di libertà ma credo si tratti piuttosto di un altro genere di conquista che tenderei a far coincidere, prima che con ogni altra cosa, con l’idea stessa della crescita e del divenire, una volta e per sempre, finalmente, a quarant’anni sònati, adulti.

Ridendo e scherzando, sono, fatemi contare, circa tredici anni che abito in Borgo Rossini. Potrei quindi avventurarmi anch’io in un modesto “amarcord” passando in rassegna cosa c’era ieri e adesso già non più, e quindi ricordare che quando, nell’ormai archeologico 2007, ricevetti in consegna dall’agenzia le chiavi dell’appartamento al civico 38 di via Catania, nel locale che ospita oggi  un’elegante rivendita di torte c’era un bar dall’aria onestamente popolare e senz’altro privo di pretese; ogni  domenica mattina, qualcuno se lo ricorderà, garantiva alla spettabile clientela un suo non disprezzabile rifornimento di arancine fatte in casa a parte tutto deliziose.

E chi si ricorda che all’angolo fra via Reggio e via Catania, al pian terreno, nei locali oggi occupati da un ufficio, una lontana parente della scrittrice di gialli Agatha Christie o del suo alter ego romanzesco Miss Marple –  la somiglianza con entrambe era, in ogni caso, impressionante – gestiva un negozio di scarpe che era allo stesso tempo anche un museo della scarpa, trattando modelli scomparsi dal commercio almeno cinque decenni prima?

E del noleggio di videocassette a metà di via Catania qualcuno si ricorda ancora? E che dove oggi il porto aperto e confortante della libreria accoglie le anime naviganti di lettori in cerca di nutrimenti per lo spirito, una volta c’era una semplice cartoleria, forse l’ultima sopravvissuta nei quartieri come nelle piccole città di provincia – qualcuno lo ha presente?

Vorrei però tentare di raccontare in via molto breve, ché lo spazio, ahinoi, è quasi terminato, un’altra storia, e intrigare il discorso fino al punto di azzardare che la casa di via Catania e il suo quartiere incarnano per me, fin dal primo giorno in cui ci sono venuto ad abitare, la bellezza dell’attesa. Il senso profondo e non privo di una sua valenza filosofica che porta con sé lo stato d’animo di chi veglia, se così posso esprimermi, sul realizzarsi di un evento che s’adatta come un vestito alla verità delle proprie speranze. E non solo perché, per motivi legati al mio mestiere prevalente di insegnante in un istituto tecnico, metà della settimana la trascorro fuori città e, salvo rare eccezioni, nel fine settimana mi trasferisco a Torino, nella mia casa di Borgo Rossini, in via Catania, e di norma, il venerdì e il sabato, qualche volta anche la domenica, sono consacrati alle uscite con gli amici –  non più di tre, fondamentali e irrinunciabili – rinnovando piccole ma altrettanto irrinunciabili e fondamentali abitudini quali un cinema, un teatro o la presentazione di una novità fresca di stampa alla libreria del borgo.

Non è solo questa particolare natura dell’attesa, che s’associa, nel fine settimana, al piacere di sentirsi parte di una comunità cittadina che ama uscire per le strade, nelle piazze, lungo le direttrici della “vacanza” e del divertimento, e investe ogni generazione, a tal punto che non puoi fare a meno di specchiarti in quei giovani universitari che han contribuito a fare di Borgo Rossini un quartiere allegro e alla moda.

Sto parlando della decisione di andare a vivere per conto proprio che corrisponde anche all’attesa di una svolta esistenziale, di un attraversamento e superamento della solitudine in vista dell’apertura e dell’accoglienza – la predisposizione all’accoglienza di qualcuno che immagini, speri, molto presto verrà a farti visita decidendo di dividere con te un pezzo del cammino della tua nòva vita.

Non puoi decidere di andare a vivere da solo pensando davvero di trascorrere tutta l’esistenza in solitaria, specie se hai oltrepassato da un po’ la linea d’ombra della giovinezza. Esiste infatti un prima, in cui, quando esci dalla famiglia per andare a vivere, con tutte le virgolette del caso, per conto tuo, senti la necessità, dettata non solo dalla scarsità di mezzi, di aggregarti, di far parte di un gruppo o di una comunità – e questo accade in gioventù; in un secondo momento, quando sei ormai entrato nell’età adulta, il bisogno di solitudine chiama in qua una forma di necessità diversa, che è quella di predisporti alla visita dell’altro, ben sapendo che il posto della tua nuova permanenza custodirà in sé la feconda memoria della giovinezza e il suo profondo insegnamento.

E poiché la felicità del presente corrisponde sempre col riaffiorare di un’altra felicità che un giorno potresti aver dimenticato o perduto, il sentimento al quale stai per andare incontro dovrà sempre essere preparato da quel te stesso ragazzo, dall’esperienza d’una linea d’ombra a cui cercherai di rimanere per sempre fedele. Nell’attesa che qualcosa si compia e che ciò che è stato un tempo possa tornare a essere.

In questo senso, via Catania e Borgo Rossini, sono stati, per me, prima di qualsiasi altra non trascurabile cosa, il luogo dell’attesa di una visita che ben presto sarebbe giunta per pronunciare il suo più autentico nome.  Un amore, che come ogni impero della Storia, ha vissuto per intero la sua più che consacrata parabola: ascesa, consolidamento e, puntualmente, declino.