Borgo Rossini stories

Il quartiere si racconta attraverso le voci delle persone

Roberto, Dante e la vedova

di Alessandro Massetti

Estate 1977. Afa, serrande abbassate e città praticamente deserta. Borgo Rossini, se non fosse stato per il caldo, sarebbe sembrato il prequel del coronavirus dei giorni attuali. In quell’agosto con tanto sole e pomeriggi troppo azzurri e lunghi ci lasciava anche Elvis Presley.

Roberto aveva all’epoca sei anni. Sempre sorridente e con tanta voglia di giocare. La bicicletta gliela aveva regalata lo zio Marco. Era nera e pesantissima ma aveva ben due marce e a quei tempi era veramente una rarità.

Dante era alto, elegante e non sorrideva mai. Aveva perso entrambi i genitori quando era ragazzo. Non aveva fratelli o sorelle. Non frequentava i parenti e soprattutto non aveva amici. Gli unici legami che aveva erano i colleghi dell’agenzia di pompe funebri per la quale lavorava come autista.

La nonna ci aveva accompagnato nel pomeriggio lungo via Catania. I platani davano ombra e respiro alle panchine che avevano come sfondo l’ingresso del cimitero monumentale. La vista non era il massimo, ma per noi bimbi era un parco giochi favoloso. Nascondino, corse in bicicletta e partite a pallone con le siepi che ci proteggevano dalla strada e da quelle rare macchine che passavano.

Dante aveva quel giorno una strana sensazione. Era il suo ultimo giorno di lavoro. Qualche settimana di ferie a casa e poi a settembre la sospirata pensione. Non era felice. Non era neanche triste. La vita sarebbe comunque andata avanti. Lui solo, nel suo appartamento di via Messina. Lui e la sua compagna di una vita: la solitudine.

Roberto non vedeva l’ora di provare la novità dello stecchino. In cortile si era sparsa la voce che fissando con un elastico lo stecchino di un ghiacciolo alla ruota posteriore non avrebbe avuto una normale bicicletta ma una rumorosissima “moto”. La nonna ci accompagnò a comprare i ghiaccioli. Li consumammo senza badare al gusto e con manovre più o meno abili fissammo lo stecchino.

Il funerale era stato sbrigativo. I parenti erano pochi e l’orario non permetteva di andare oltre. Il carro funebre imboccò il viale di via Catania dalla laterale via Parma. All’epoca il viale era transitabile solo dai carri funebri e relative auto al seguito. La processione si avviò con solenne torpore verso l’ingresso del Cimitero. Dante aveva a fianco una magrissima e nerissima vedova. Tra i due neanche una parola. Consolare non era il suo compito. Lui doveva soltanto guidare ed accompagnare in quest’ultimo viaggio il defunto. Attendere sul carro funebre e rientrare in sede. Da sempre.

Roberto aveva le ginocchia sbucciate come tutti i bambini di allora. L’asfalto del viale era leggermente sconnesso a causa delle radici dei platani. Ciò non toglieva che di fronte a lui si stendesse il più bel circuito motociclistico mai visto. Fece le prime incerte pedalate sperando di sentire quel rombo tanto agognato. Lo seguii correndogli a fianco e spiegandogli che doveva andare più veloce per avere “l’effetto moto”.

Dante era più pensieroso del solito. Quel giorno non era solo l’ultimo viaggio per il defunto ma, in qualche maniera anche il suo. Fissò il cruscotto. Accarezzò la pelle dei sedili. Pulì con cura le plastiche. La guida lenta e flemmatica spesso gli dava modo di pensare. Quel pomeriggio però aveva la mente svuotata. I platani sembrano inchinarsi come per un ultimo saluto al suo passaggio. Il sole filtrava tra i rami intricati al pari dei suoi pensieri. Un labirinto di luci ed ombre.

Roberto cominciò a pedalare con foga sempre maggiore. Davanti a lui una distesa dritta e piatta. Lui al centro della pista. Il rumore sempre più forte. La “moto” stava prendendo vita. Le sue gambe davano sempre più cavalli e potenza. Il traguardo sempre più vicino. Il viale aveva varie traverse che lo intersecavano e noi sapevamo bene che arrivati in via Buscalioni dovevamo fermarci. Pena il non tornare sul viale per qualche giorno come punizione per aver disubbidito.

Dante imboccò l’ultimo tratto del viale: quello che da via Buscalioni lo avrebbe condotto all’ingresso del cimitero. Era agosto. Faceva caldo. Era in giacca e cravatta. Ma… era sudato. E questo lo preoccupò. Lui non sudava. Mai. Nemmeno quando nei pomeriggi caldissimi attendeva pazientemente in macchina. Si asciugò, forse per la prima volta in vita sua, il sudore sulla fronte. Si tolse il cappello. Gli occhi erano strizzati in un’espressione di paura e ansia. Il viale cominciò ad essere una lingua contorta di asfalto e polvere. Perché?

Roberto era lontano. Non riuscivo più a tallonarlo. Andava troppo veloce. Era felice. Finalmente guidava una moto. Avevo il fiatone. Ero rimasto parecchio indietro; circa a metà del viale quando lo vidi. Era nero, lucido ed enorme. Ne avevo già visti parecchi ma mai così sontuosi ed imponenti. Era un carro funebre.

Dante si slacciò il nodo della cravatta. Non era più una cravatta ma un cappio. Gli mancava l’aria. Il sudore gli riempiva gli occhi. Era tutto bianco là fuori.

Il suono della moto all’improvviso cessò. Lo stecchino, probabilmente a causa della forte velocità si era rotto o staccato. Roberto si girò per capire cosa fosse successo. Fissò la ruota posteriore cercando di mantenere il manubrio dritto.

Cominciai a correre. Mi mancava il fiato. Non riuscivo ad urlare. Roby girati ti prego… guarda avanti… Il carro era ormai a pochi metri. Sempre più grande, sempre più nero.

Dante era allo stremo. Lasciò la presa sul volante e si voltò verso la vedova. Lei guardava fuori dal finestrino. Assorta e assente. Piangeva nel suo fazzoletto. Nero.

Roberto continuava a fissare la ruota posteriore. Continuava nella sua folle corsa. Alla cieca.

Dante si mise le mani sul viso. Il carro proseguiva nella sua direzione. Alla cieca.

La vedova sospirò. Sapeva che a breve avrebbe salutato per l’ultima volta l’uomo che per anni le era stato accanto. Sapeva che l’ingresso del Cimitero era alle porte. Si voltò in quella direzione. E lo vide.

Vide un bambino su una bicicletta che, senza guardare, gli stava venendo incontro. Guardò l’autista. Aveva la testa inclinata sul poggiatesta. Una mano in grembo e l’altra inanimata sul volante.

Roberto cercava con lo sguardo di capire se lo stecchino si era staccato o solo spostato. Era andato tutto così bene. Forse era l’elastico. Forse bisognava metterne due. Uno per parte.

La vedova nera, seduta su un carro funebre nero che stava andando incontro ad un bimbo su una bicicletta nera capì che doveva fare qualcosa. Si tese verso il volante e con un colpo degno di un pugile suonò il clacson.

Roberto si girò di scatto.

Dante si destò dall’inerzia.

La vedova suonò ancora.

Roberto schiacciò con forza i freni. Le gomme lasciarono una scia nera sull’asfalto. Scartò sulla destra andando a sbattere sulle siepi. I rametti gli graffiarono braccia e gambe.

Dante istintivamente schiacciò il pedale del freno. Anche se a velocità più che modesta la frenata spostò il suo corpo quasi esanime contro il volante.

La vedova tornò composta al suo posto guardando oltre il parabrezza le porte dischiuse del cimitero. Ricominciò a singhiozzare.

Raggiunsi mio fratello. Volevo sgridarlo. Picchiarlo. Urlargli qualsiasi cosa per fargli capire cosa aveva rischiato. Lo abbracciai. E basta.

Lui mi guardò. Io avevo gli occhi lucidi e tremavo.

Mi sorrise e con l’innocenza di un bambino mi disse: “dobbiamo comprare un altro ghiacciolo”.