Porta Palazzo stories

Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle persone

Il biglietto per il paese dei balocchi

di Alessandra Musso

 

Un sabato di marzo, 1980, ore 8, anni 6.
Panificio Gioannini in piazza Borgo Dora, al 24/d, in coda.

La mia manina in quella di mio padre e le mie papille gustative in trepida attesa della pizza bianca con i buchi grossi e intrisi di olio, come piace a me. Dieci minuti di gusto intenso e siamo pronti a girovagare il balon per intere tre ore. Lo stesso rito, ogni sabato. La mia manina nella sua e i miei riccioli biondi che gli arrivano all’anca, “altezza” perfetta per ascoltare la gente e guardare – non toccare – sulle bancarelle.

Rapita dall’infinità di cose esposte e nonostante non ci fossero molti giocattoli – men che meno quelli degli anni ’80 – mi sentivo nel paese dei balocchi; la voce di mio padre era un continuo mutare di tono, disinteressato e deciso nel contrattare per aggiudicarsi l’oggetto desiderato, affettuoso nel salutare le vecchie conoscenze e i compagni di una vita, orgoglioso e a tratti malinconico nel raccontarmi i luoghi della sua infanzia.

Il primo racconto arriva puntuale in via Borgo Dora 30. «Vedi questo portone? È qui che ho abitato dai tre ai quasi trenta anni», mi dice all’orecchio; in un attimo sono sulle sue spalle, entriamo nel cortile e guardo in alto. «Abitavamo al terzo piano, l’ultima porta a destra, si entrava dal balcone sai? Mica come adesso che hai la porta blindata; davanti all’ingresso arrivava puntuale, dopo il quotidiano vagabondare, il mio gatto nero e quel gabbiotto di legno che vedi là era il bagno, ma non come lo conosci tu».

Naso all’insù verso il ballatoio, che sulle spalle di mio padre era più vicino, chiedo sempre la stessa cosa. «Come si chiamava il tuo gatto nero, papà?», ottenendo sempre la stessa risposta. «Non aveva nome, era gatto nero; ogni tanto arrivava con un pollo in bocca, lo appoggiava orgoglioso per terra, come a dire – visto? – e per noi era una grande festa».

Proseguiamo per via Borgo Dora, la mia manina sempre nella sua e la mia fantasia ancora su quel super gatto nero con un pollo intero in bocca. Intervengono lunghe contrattazioni che riempiono, man mano, lo zaino di mio papà: un pinocchio di legno, una lampada, due scatoline con manovella, due bottiglie con una biglia dentro.
«Perché la bottiglia ha la pallina, papà?». «Questo tipo di bottiglia conteneva una bibita gasata. Per aprirla dovevi spingere la pallina in modo da far uscire il gas; sapessi che rumore faceva!».
«E questa scatola con il cassettino e la manovella?». «È un vecchio macina caffè, qui mettevi i chicchi, li tritavi girando la manovella e la polvere di caffè cadeva nel cassettino».
«E questa cos’è?». «Una lampada antica, è un regalo per la mamma, vedrai le piacerà tantissimo!».
«E questo lo sai chi è?», mi chiede papà. «Ma è Pinocchio papà, lo sanno tutti!».

Arriviamo fino al ponte, quello che io chiamo “il ponte alla fine della via dove ha vissuto mio papà”, ci affacciamo in direzione di un altro ponte – quello che ha il nome di un insetto – e mio papà mi dice: «Lo vedi quel ponte là? È il ponte Mosca da cui mi buttavo nella Dora, quando ero piccolo e quando il fiume non era così sporco come lo vedi adesso. Facevo il bagno nudo, quando ancora era concesso».

Il girovagare era al termine. Partiti da via Vittorio Andreis per arrivare in piazza Borgo Dora e fare la tappa del gusto, avevamo poi proseguito per via Borgo Dora fino al fondo, tornati indietro costeggiando l’Arsenale della Pace e infilandoci al Cortile del Maglio, per poi uscire nell’interno di via Andreis e ritrovarci nuovamente in piazza Borgo Dora. Le ultime spese al mercato di frutta e verdura e finalmente ritorno alla macchina, parcheggiata in via San Pietro in Vincoli. Un perimetro che solo qualche anno più in là avrei associato a un “trapezio” e che ogni sabato – dal 1980 a circa il 1986 – era il mio speciale viaggio nel paese dei balocchi, un posto senza luogo e senza tempo, il cui biglietto durava tre ore.

Un sabato di marzo, 2020, ore 10, anni 46.

Il panificio Gioannini in piazzetta Borgo dora, al 24/d ha cambiato nome e gestione, ma sono sempre in coda per la pizza bianca con i buchi grandi e intrisi di olio, la cui bontà è rimasta la stessa, nonostante siano trascorsi 40 anni.

Ritorno al Balon, questa volta da sola, ma con lo stesso entusiasmo e la consapevolezza che i racconti di mio padre, allora favole, sono ora ricordi preziosi e malinconici. Mi ritrovo al civico 30 di via Borgo Dora e noto che la vecchia palazzina dell’800 è stata restaurata; impossibile entrare nel cortile, il portone – quello che fino agli anni Ottanta rimaneva sempre aperto enfatizzando il concetto di “condivisione” – è chiuso per proteggere “la proprietà privata” – così come concepita oggi – accessibile e godibile solo dagli esclusivi occupanti. Le bancarelle sono sempre tante, molti degli oggetti esposti perdono il fascino “magico” (dettato dalla giustificata ignoranza dei miei sei anni) e acquisiscono il consapevole sapore delle “cose di una volta”; i commercianti che avevo conosciuto da piccolina, si contano ormai sulle dita di una mano.

Mi soffermo al civico 39 di via Borgo Dora, catturata da una vecchia buca da lettere fatta in legno – le adoro – che su uno degli sportelli indica il cognome “Musso”. Il cuore sobbalza, tagliando il respiro e spinge la mente a chiedersi se quella sia proprio la buca delle lettere del civico 30, dove abitava mio padre, Giovanni Musso. Non resisto e lo chiedo alla signora del negozio di antiquariato, che smentisce, ma rilancia: «Ma sei la figlia di quel Giovanni Musso che abitava qui davanti? Come sta? Salutamelo tanto e digli che mi ricordo ancora di quando giocavamo insieme qui davanti». Mi commossi tanto a far da “ponte della memoria” fra due persone che non si incontreranno più, ma che hanno condiviso l’infanzia.

Proseguo il mio giro, osservando la gente. Quell’“esercito di formiche che fa rifornimento per l’inverno” – così la immaginavo a sei anni – è diverso solo per generazione, ma ugualmente curioso e frenetico. Rispetto al potere di contrattazione però, trovo che la generazione di oggi sia eccessivamente discreta, perché distinguo all’istante quegli avventori che ancora “ci sanno fare”; non è un fattore generazionale – a parer mio – ma di prossimità geografica ed emotiva a Porta Palazzo e al Balon.

Sono le 15, finisce il mio viaggio nel paese dei balocchi. Il biglietto è durato di più questa volta e anche il mio zaino è pieno: di felicità – per esser tornata in un luogo a me caro – e di ricordi che, nonostante il passare degli anni e il mutare delle cose, Porta Palazzo custodisce con gelosia.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini