Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

10 lire di nocciole tostate

di Michela Pini

 

All’altezza del Cimitero Monumentale sento aria di casa. Accanto al Roseto della memoria riposa mio padre. Da lì parte quel percorso bislacco che compie la mia memoria ogni volta che torno a Torino.
“Svolta a destra” dico a mio marito.
“Lo so. Sono vent’anni che facciamo la stessa strada”
Corso Regio Parco. I fiorai e i marmisti davanti al cimitero. Mi ricordano un romanzo di Fruttero e Lucentini,
non ricordo più il titolo.
La casa gialla prima della Manifattura Tabacchi. Ricordi lontani.
L’Alma Mater, il primo Hammam di Torino, il primo della mia vita. Mi immergo in odori e voci lontane. “Le donne sono bellissime dopo il bagno turco” mi ha detto qualcuno, non ricordo chi.

Fermi a quel semaforo che non diventa mai verde. Con mio padre ci scherzavamo. ”O sei nato di qua o sei nato di là”.
Mille percorsi possibili. A sinistra via Bologna. Un tramviere una volta si è fermato lì ed è sceso per pisciare.
Cavallero, invece deviava il percorso del tram per accompagnare i compagni a casa, dopo le manifestazioni.
Una Torino che non esiste più.
A sinistra passerei davanti al Bodoni dove andava a scuola mio fratello Roberto. In via Pacini, l’Einstein, con le sue piastrelle piccole e quadrate. Il liceo in cui siamo andati io, mio fratello Massimo e anche i Righeira.
“Mamma ce l’hai già detto un sacco di volte” direbbero i miei figli.

A poca distanza Piazza Foroni con il suo mercato. Lì abitava Rosa, la nonna di mia madre. Il risotto con il sugo d’arrosto mantecato nel burro. Un mal di testa che durava fino al lunedì.
Nonna Rosa era stata una delle donne che nell’agosto del 17 aveva partecipato alla rivolta del pane. I forni non avevano più pane, e di ballatoio in ballatoio era corsa voce che, alla Chiesa della Pace, il parroco nascondesse scorte di farina. Le donne si erano ritrovate lì davanti per reclamare un po’ di farina. Il prete aveva chiamato le guardie che avevano sparato sulla folla uccidendone diverse. “Nonna Rosa non era più tornata in chiesa” diceva mia madre “nemmeno per i matrimoni o i funerali”.

Un po’ più in là, in via Clementi, abitava zia Rina, “sarta alla Marus”, con il marito Elio “tecnico alla Riv” e partigiano con tanto di lettera di merito del generale Alexander. Erano stati tra i primi ad avere la televisione in Barriera, e i miei genitori da fidanzati andavano a casa loro a guardarla.
Dall’altra parte della piazza, in via Baltea, c’era la sezione del Pci che frequentavano i miei. Più in là, in una traversa di corso Vercelli, il Banfo, la federazione del partito.
Lì vicino il negozio dove mia mamma faceva la commessa. Mi sembra si chiamasse Casato.
In piazza Crispi abitava la mia amica Ileana. Nella sua cantina si accedeva direttamente al rifugio antiaereo.
Poco più in là, dall’altra parte di corso Giulio Cesare, in via Feletto, era cresciuta mia madre. Proprio accanto al numero 31 dove c’era una Casa Chiusa. Me l’ha raccontato mille volte. La paura di uscire la sera, di incrociare i clienti ubriachi e di chissà cos’altro.

Il cuore di Barriera. Lì, la Scuola Aristide Gabelli dove ho frequentato le elementari, prima di me i miei fratelli, mia madre e anche mio nonno e i suoi fratelli. Anche Luigi, quello morto di spagnola. Il più bello.
A quel punto sarei a due passi da via Brandizzo e avrei la tentazione allungare il passo per tornare a casa e non vedere quello che non c’è più.
Invece senza rendermene conto mi troverei davanti al colorificio di mio padre e ci sarebbero ancora tutti,
mio padre ma anche i suoi amici: Sergio, il corniciaio, Enzo, il fotografo che immortalò l’urlo di Tardelli ai mondiale dell’82, e Domenico, il parrucchiere. Poi Gino, Giovanni e tutti gli altri.
Come allora andremmo a prendere l’aperitivo da Ezio alla Piola sull’angolo. Per me ci sarebbero 10 lire di noccioline tostate, il sapore inconfondibile della mia infanzia.

Il semaforo è verde. Sempre dritto la Cremeria Sempione, i pasticcini della domenica. La piscina che nei primi anni di università volevamo occupare. Dall’altra parte la Cascina Marchesa, dove ho letto tutti titoli della sala ragazzi.
L’ospedale San Giovanni Bosco dove adesso lavora mio fratello. C’era il capolinea del 4, una volta, lì davanti. I giardinetti in cui andavo da bambina, come sono squallidi visti ora. Io e Laura incrociavamo il maniaco in bicicletta andando a scuola, alla Baretti, a volte: uno dei matti della comunità di via Paisiello, quello con l’impermeabile.
Giriamo a sinistra verso piazza Respighi, getto uno sguardo alla ferrovia in disuso. Qui sotto i miei nonni con mia madre piccola andavano a rifugiarsi durante i bombardamenti.
“Non voglio fare la fine del topo”, diceva mio nonno rifiutandosi di scendere nei rifugi.
Una volta qui erano solo prati e cascine. Via Cherubini, i giardinetti in cui ogni volta getto un occhio casomai ci fosse zia Rina con le sue amiche, anche se so che è impossibile. Via Mercadante, pochi metri e ci fermiamo: mio padre non è più lì ad aprire il cancello con il giaccone, la sciarpa e le ciabatte.

Scendo ad aprire con le mie chiavi, guardo la fontana al centro del cortile. Sorrido pensando a quella volta in cui ci trovammo una testuggine marina.
Citofono a mia madre.
Sono a casa.