(Sogno?) Di una notte di mezza estate

di Sabrina De Bastiani

 

La notte bianca di mezza estate, fin dalle prime edizioni, oltre ai turisti di stanza a Noli, richiama persone a frotte dai centri limitrofi. L’intarsio di vicoli stretti si fa eco di passi, brusio, risate. Sembra che ciascuno sia dotato di una sorta di bussola interna, guida allo sciamare ininterrotto e mai esitante nel dedalo di un borgo che per l’occasione si atteggia a kasbah.

Si mischia alla folla, accarezza distratta abiti e stoffe esposti nei dehors dei negozi, cerca varchi impossibili tra gomiti, braccia e improvvisi stop. Vuole andare alla spiaggia. Le serve silenzio e una Corona ghiacciata. Sedersi sulla riva in quel buio riverberato che è il mare di notte. E pensare al da farsi.

Prova a svoltare a sinistra, c’è uno stretto meno trafficato che si apre in una piazzetta dove affaccia la Chiesa di San Pietro dei Pescatori, scarta un paio di persone ed è lì che lo vede.

– Non è possibile. Non può essere lui. Non può essere qui. Non può essere. –
Ma il panico non ascolta la pura logica, le gambe neppure. Si volta di scatto, suda ghiaccio e lacrime che la fanno cieca. Urta chiunque, si scusa, al principio, poi nemmeno più.

La ipsilon di plastica dell’infradito si spezza al centro facendo leva sul lastricato antico, perde l’equilibrio ma non si ferma. E non si volta. Anche se le sembra di sentire il suo respiro sulle spalle, il suo alito, menta e sigaretta, sul collo. Dove trova spazi per farlo, corre, sbanda, si sfrangia la pelle sui muri stretti, pietra levigata ma sporgente, batte la testa, la tempia, una riga rosso scuro, densa, le solca la guancia.
Sangue vivo.

Subito passato l’arco, fuori le mura, si ferma. Non è coraggio, solo fiato mozzato e gambe che cedono. Nell’aria sapori d’estate. Pomodori tagliati, soffritto, pesce. Si concentra su questi afrori per cancellare l’odore della sua paura. Si accascia a terra. Il dito sulla guancia, poi in bocca, ferrigno si mescola a saliva.
Sangue vivo.

Ma lui no. Lui era morto.
Non può essere… sviene prima di terminare il pensiero, e tutto resta sospeso.
Tutto si fa sospeso.
Tranne le braccia che la sollevano da terra e la portano via.

Si sveglia di scatto e la mano corre alla tempia. Ma non è sangue quello che le solca la guancia. È il primo raggio di sole del giorno, a dorare la spiaggia dei pescatori, ad attraversarle obliquo il viso.
Si tira su a sedere, lo sguardo al promontorio di Capo Noli, i gabbiani che passeggiano il bagnasciuga.
Fa già caldo, ma un brivido le percorre la schiena.
Un incubo, è stato solo un dannato, stupido incubo.

Non ricorda come è arrivata alla spiaggia, nessuna birra Corona accanto a lei.
Decide di non interrogarsi oltre, grata per essersi ritrovata lì. Sola.
Si alza e si dirige verso il mare per bagnarsi i piedi, due passi appena, ma dopo uno incespica. Lo sguardo a terra, la ipsilon di plastica dell’infradito spezzata, come il suo respiro mentre si volta di scatto e abbraccia con gli occhi quello che può di Lungomare Marconi, cercando di capire da dove provenga quel sussurro che sente, ora, prepotente.

Ma è solo il vento a sibilare il suo nome, Nina.