Il Regno dei Passi

di Eva Capirossi

 

“Papà ne ho visto uno! e un altro, eccolo là!”

Era il gioco dei gatti. Facevamo la gara a chi ne vedeva di più, la notte, quando Noli si trasformava nel Regno dei Passi. Quelli di papà.
Passi inconfondibili.
Li sentivo esplodere nel vicolo accanto, quando ci veniva incontro se eravamo andati al cinema con mamma, e io sapevo che era lui. Poteva essere soltanto lui.

Toc, pausa, Toc, pausa, Toc.

Lenti, forti, solidi.
Erano i rintocchi del campanile del regno.
Erano lo scoccare delle ore infinite.
Il bussare delle promesse mantenute.
La punteggiatura della vita che verrà.

Magari tornavamo da una cena in spiaggia, coi tavoli apparecchiati tra le cabine. Io avevo già dormito un po’ sulla sdraio, la plastica fredda della notte che lasciava i puntini sulle gambe, e il coprispalle della mamma buttato addosso.
O forse uscivamo dal Cristallo, o dal Conchiglia. Oppure dal Lux, quello sotto le stelle. Il film si sceglieva già alla mattina, scendendo al mare, davanti ai tre manifesti appiccicati sul tronco delle palme. Ci andavamo rigorosamente al secondo spettacolo, che noi tornavamo tardi dalla spiaggia, cenavamo tardi, insomma facevamo tardi in tutto. Così quando ci alzavamo dai sedili di legno che lasciavano le gambe seghettate, la pancia piena di caramelle di gomma, era passata mezzanotte.
E allora, solo allora, cominciava la traversata del Regno dei Passi.

Impugnavo il dito di papà, il timone per l’esplorazione notturna del mondo di sotto. Laggiù non c’erano più regole, tranne quelle del gioco dei gatti.
“Non vale contare lo stesso due volte. Quello lì senza un occhio l’ho già visto io”.
Le regole le sapevano anche loro che, a differenza di noi, non baravano mai, erano i giocatori più leali. Sgusciavano nei vicoli, sfilavano in coppia, si infilavano nei budelli, indugiavano davanti alle lische buttate a terra vicino alle friggitorie, quel tanto che bastava per farsi riconoscere.
I soli abitanti del Regno dei Passi.