A diciannove anni dovevamo farlo

di Filippo Salvaterra

 

Stai attento, se metti il piede lì ti ammazzi. Fidati, lo so com’è fatto un ponteggio!

Ma Gri faceva sempre il contrario di quel che diceva, e aveva già salito tre piani delle impalcature intorno alla Torre Dei Quattro Canti. Noi altri passavamo all’interno, dalle scale a pioli, lui si arrampicava all’esterno, che se avesse avuto due gocce di sudore in più sulle mani, sarebbe precipitato al suolo rompendosi il collo. Ce ne saremmo accorti soltanto noi sul momento, perché alle tre di notte buona parte del paese sta già dormendo, e non è che tutti abbiano la malsana idea di scalare la torre più alta del borgo, nel suo periodo di restauro. Noi sì, noi volevamo farlo, avevamo 19 anni ed era una sfida alla quale non potevamo sottrarci. C’era una ragazza che mi piaceva. Che piaceva un po’ a tutti, possiamo dire, e qualcuno l’avrebbe impressionata di più, è chiaro. Ma il presupposto era raggiungere il tetto, quindi gambe in spalla a sfidare la gravità, ponteggio dopo ponteggio, 47 metri più vicino alle stelle, che in quella sera d’estate erano davvero fantastiche.

Ci passiamo, di qui? chiedeva la ragazza, avvicinandosi a una finestrella della torre.

Sì, aveva risposto Simo, ma usiamo le scale delle impalcature, ché mi fido di più. Chiaramente c’era intesa tra i due, e noi rosicavamo. Ma nessuno l’avrebbe confidato al prossimo, né Davi, né Ema, né Fla, né Anto, né io. Nessuno. Avremmo parlato invece della serata al Bajda che ci stavamo perdendo e di quanto ce ne fregasse poco. Ché tanto tutto resta dov’è. Ché tanto tutto si ripete, sempre uguale a se stesso, qui da noi, a Noli. Nulla cambia. Nelle aree sociali di punta ci sono sempre i più piccoli con cui eviti di attaccare bottone per non sembrare sfigato, e i più grandi, che deridi, come se avessero sprecato la vita a frequentare gli stessi posti bazzicati da pischelli come te. E poi c’eravamo noi. Che se ci pensi bene non avevamo nemmeno la stessa età, ed eravamo parecchio contraddittori. Avremmo parlato degli altri del gruppo. Del fatto che avessero sempre qualcosa di più noioso da fare. E degli altri ancora che, una serata su due, al passaggio di una volante, andavano a nascondersi dove gli sbirri non li avrebbero cercati. Dove noi non li avremmo cercati. E poi pettegolezzi, stupidaggini, e nulla di veramente serio. A quell’età, a Noli, durante una di prova di coraggio, non puoi parlare di cose che ti toccano nel profondo più di quanto potrebbe fare una serata in discoteca o una zuffa con la banda rivale della spiaggia vicina. La tua sensibilità, le tue insicurezze, il tuo senso di incongruenza alla realtà dove sei nato e cresciuto te li tieni per te. A 19 anni, a Noli, in una compagnia di scalmanati, devi essere spavaldo. E scalare una torre alle tre di notte.

Le stelle si erano fatte vicine, come l’ultimo ponteggio. Finalmente, il tetto. Gri era arrivato per primo, petto nudo e mani protese al cielo. Aveva ululato alla luna e tutti gli avevano detto di stare zitto, ché non era il caso di farsi beccare sul più bello, anche se in realtà avremmo voluto essere a petto nudo a esultare anche noi.

La ragazza non mi guardava. Ma mi consola sapere che non stesse guardando nemmeno gli altri. Guardava l’unica cosa a cui valesse la pena prestare attenzione. Il paese. Lo guardavo anch’io, lo guardavamo tutti, e per un po’ avevamo messo da parte la stramaledetta spavalderia in favore del silenzio. Noli era lì, 47 metri sotto di noi, e ogni anfratto in cui avessimo messo piede fino ad allora era nitido e riconoscibile, come nella mappa di un depliant dell’ufficio turismo. Vedevo le scuole elementari, le medie e il terrazzo dove un giorno ci eravamo nascosti per saltare l’ora di musica. Vedevo i giardinetti e la casetta di legno, teatro di molte dichiarazioni amorose fallimentari. La loggia dove insultavo gli altri mentre fumavano le prime sigarette e il promontorio dove ho cominciato a fumare anch’io poco dopo. La fermata dove prendevo il bus per andare al liceo e quella dove prendevo il bus per saltarlo. La piazzetta dove giocavamo a pallone negando il sonno a due poveri settantenni. La baracchetta dove cominciavano quasi tutte le nostre serate, e il bar dove andavamo a finirle alle sei del mattino. La spiaggia dove ho visto l’alba, tra le barche dei pescatori, e un ragazzo, chitarra alla mano e gambe a mollo fino al ginocchio, suonava Yanez al sorgere del sole.

E lì non capivo bene cosa stessimo provando. Penso sia impossibile farlo quando riesci a racchiudere una vita intera in un campo visivo. Quando è tutta a portata di mano, in un certo senso. Ti senti piccolo e grandioso allo stesso tempo. Poi guardi le stelle e noti che sono ancora alla stessa distanza, come quando eri a terra. Irraggiungibili. Guardi più in là, nel futuro che cerchi. E ti chiedi se ti porterà più lontano di quella torre. Poi un amico si appoggia al balcone dal quale stai contemplando ogni cosa e sorride. Sembra un po’ una promessa. Di cose belle che sono state e di cose che verranno ancora.